C’è stato un tempo in cui Aleppo era il cuore della Siria. Oggi la città simbolo del Paese è semi-distrutta e dentro ed attorno ad essa si combatte una battaglia feroce e senza esclusione di colpi. La stessa battaglia che rende complicato rilanciare e ravvivare l’iniziativa diplomatica Onu. Ieri John Kerry e Sergei Lavrov si sono detti d’accordo sulla necessità di aumentare la distribuzione di aiuti e di aprire corridoi umanitari. Oggi a Monaco si incontrano americani, russi, iraniani, sauditi e altri per cercare di trovare una qualche forma di accordo sula strada da prendere per arrivare a un cessate-il-fuoco propedeutico a una vera trattativa sul futuro della Siria. Mosca avrebbe proposto uno stop all’offensiva a partire dal 1 marzo, mentre da Damasco la linea è: ci fermeremo dopo aver preso Aleppo.
Andiamo con ordine: nei giorni scorsi le truppe di Assad, con il sostegno indispensabile dell’aviazione russa hanno occupato alcuni villaggi attorno alla città, rendendo complicato il transito da e per la Turchia. La città rimane occupata per metà dalle truppe siriane e per l’altra metà da gruppi ribelli diversi tra loro – al Nusra, Isis, ma anche i gruppi sostenuti dagli Stati Uniti, alcuni cooperano tra loro, altri quasi si combattono, nessuno agisce di concerto. Da qualche settimana l’intensità della battaglia è aumentata e questo ha determinato – ecco un altro fronte siriano aperto – una nuova ondata di profughi in fuga verso la Turchia. In quanto città simbolo occupata dai ribelli, Aleppo è diventata in qualche modo un passaggio chiave della guerra siriana. Lo sforzo di Assad per riprenderla è quello di chi vuole segnare un punto e mandare un segnale al Paese e alle potenze straniere: siamo in piedi e stiamo riguadagnando terreno.
Nel frattempo in città mancano acqua ed elettricità da mesi, una centrale elettrica è nelle mani dell’Isis ma la rete è operata dal governo. Le due entità, ovviamente, non si parlano. Delle migliaia di cristiani residenti in città prima della guerra ne sono rimasti pochi e così un centro multiconfessionale importante dove sciiti e sunniti e cristiani di varia ascendenza convivevano oggi non è più quel che era.
Ma Aleppo, appunto, è diventata un simbolo e in quanto tale è lo specchio dell’impasse totale nel quale si trova lo sforzo diplomatico Onu. Se l’ultimo incontro di Ginevra si è risolto in un disastro prodotto dal ritiro delle forze di opposizione che protestavano per il fatto che aerei russi continuavano a bombardare proprio mentre si negoziava, il nuovo appuntamento in Germania non presenta novità rilevanti. «È chiaro a tutti che la Russia non vuole nessun negoziato ma la vittoria di Assad» ha detto un diplomatico Onu alla Reuters, mentre un consigliere di Assad ha spiegato che le truppe siriane non si fermeranno fino a quando non avranno ripreso Aleppo. Un diplomatico occidentale ha commentato: «Il cessate il fuoco sarà facile, tra un po’ gli oppositori saranno tutti morti». L’uscita di scena di Assad, in questo scenario, non è prevista.
Chi è nei guai è John Kerry, che per quella lavora, per quanto non traumatica ma negoziata. Il Segretario di Stato era convinto del fatto che i suoi sforzi e il suo antico rapporto personale con i russi avrebbe funzionato da grimaldello e che, in fondo, sarebbe interesse di Mosca trovare una soluzione onorevole per Assad che mettesse fine alla guerra. Evidentemente Putin ha un’altra idea, anche dettata dall’idea di far dimenticare l’Ucraina e mostrare al Paese e al mondo che la Russia pesa ed ha i muscoli. Operazione per ora riuscita.
Non solo, gli americani litigano con la Turchia, furiosa per il sostegno militare di Washington ai curdi dell’YPG, stretti alleati del Pkk turco che Ankara combatte nel sud est del Paese. L’YPG, tra l’altro, sta dando di fatto una mano all’esercito siriano ad Aleppo, in un gioco che rende le cose più complicate che mai.
E altre idee hanno l’Iran – schierato con Mosca e Assad – e l’Arabia Saudita, che ha annunciato l’invio forze speciali di terra in Siria per combattere l’Isis. Che poi l’annuncio sia condito da parole contro Teheran e la sua influenza in Yemen, ci dice come, per Riad, Daesh sia almeno in parte uno specchietto per allodole per entrare nel Paese. In teoria l’invio di uomini sarebbe legato allo sforzo della coalizione guidata dagli Usa contro l’Isis, ma soldati sauditi in Siria complicherebbero ulteriormente la situazione.
Altra complicazione è l’atteggiamento turco. Se da un lato il presidente Erdogan ha parlato di minaccia alla Turchia per la presenza di truppe siriane ai confini e il premier Davutoglu ha detto che Aleppo va difesa, da Ankara smentiscono la volontà di muovere truppe. Certo è che la situazione è un insieme di tasselli in cui ogni scelta genera ripercussioni possibili.
Laurent Fabius ha lasciato il posto di ministro degli esteri francese perché nominato da Hollande ad altra posizione e, accomiatandosi, l’ex premier socialista ha attaccato gli Usa: «Gli americani mandano segnali contraddittori, non sono abbastanza decisi nella volontà di agire e hanno un atteggiamento ondivago. I russi e gli iraniani se ne sono accorti». L’idea francese è che agli Usa della Siria non interessi e che lo sforzo sia solo volto a colpire Daesh. Non hanno tutti i torti. Ma è altrettanto vero che l’atteggiamento russo è stato, come spesso accade, diverso sul terreno e nelle stanze della diplomazia.
Nessuno crede molto all’appuntamento di oggi, tutti in Consiglio di sicurezza Onu premono perché Mosca la smetta di bombardare, ma Putin vuole smettere solo dopo aver regalato ad Assad Aleppo e messo il regime di Damasco in una posizione di forza nelle trattative. I ribelli si rifiutano di parlare se i raid aerei non smetteranno. Intanto al confine turco bivaccano migliaia di rifugiati in fuga dalle bombe, a Madaya il cibo torna a scarseggiare e le organizzazioni umanitarie attive in Siria avvertono che le centinaia di migliaia di persone intrappolate ad Aleppo sono a rischio carestia. Mai così tante erano state così a rischio in questa guerra siriana. Un rapporto pubblicato oggi stima in 400mila i morti della guerra, l’11% della popolazione. Quasi due milioni i feriti, mentre il 45% della popolazione ha lasciato la propria città o villaggio.