Impossibile non provare simpatia per Pietro Bartolo. Questo signore dal volto un po’ rude, naso aquilino e una gran massa di capelli è il dottore dell’isola. Lampedusa, naturalmente. Ed è proprio lui, Pietro, il “supertestimone”, quello che ha visto passare sotto i suoi occhi tutti – ma proprio tutti – i migranti arrivati sull’isola. Sbarcati con le proprie gambe o, purtroppo, corpi senza vita nelle stive dei barconi. Pietro è uno dei protagonisti del docufilm Fuocoammare di Gianfranco Rosi in concorso al festival di Berlino e da oggi, 18 febbraio, nei cinema italiani. Lo abbiamo visto anche nella conferenza stampa a Berlino sorridente accanto al regista e a Samuele, il bambino che gioca a calcio nel campetto vicino al cimitero dei barconi naufragati. Racconta il regista del Leone d’oro a Venezia con Sacro Gra che dopo aver sentito la storia di Pietro e aver visto nel computer del medico «immagini strazianti fino alle lacrime», in quel preciso momento ha deciso che quello era il film che doveva fare.
Io il dottor Pietro Bartolo l’ho conosciuto e adesso vi racconto chi è, con molti più particolari rispetto al reportage che scrissi nel settembre 2013.
Lampedusa 2013, un agosto tranquillo: solo pochi sbarchi di giovanissimi eritrei e somali, nulla faceva presagire la tragedia imminente. Qualche settimana dopo, infatti, all’alba del 3 ottobre, cambia tutto: un naufragio, 368 morti a poche centinaia di metri dall’Isola di conigli. Lampedusa si ritrova proiettata nell’Europa dei “buoni” sentimenti e assiste alle processioni di leader di fronte alle bare allineate. Ma in realtà qualcosa cambia solo con l’operazione Mare Nostrum, durata però troppo poco per lasciare solo Frontex e i muri che sorgono sulle nuove rotte dei migranti.
In quell’agosto dunque vado al Poliambulatorio, un edificio basso appena fuori il paese.
Per telefono Pietro era stato subito disponibile, gentilissimo. Mi accoglie nella sua stanza mentre sta parlando con la pediatra che, con un grande sorriso, gli racconta: «Quei bambini stanno benissimo, non sembra nemmeno che abbiano passato due giorni sul gommone. Si vede che hanno voglia di vivere, di farcela».
Il dottor Bartolo sorride all’altro capo del tavolo. Quei bambini fanno parte dell’ultimo gruppo di immigrati appena sbarcato nell’isola. Gli ultimi di un fiume umano iniziato nel 1991. Ma è un fiume anche lui nel raccontare le sue storie, tante ne ha viste in oltre vent’anni. «Quella prima volta io c’ero. Io e tre carabinieri» racconta il medico. Una barchetta di legno con tre tunisini attraccò al porto vecchio, quello dei pescatori, dove c’è una spiaggetta con bellissime palme. «La cosa destò scalpore, la gente gridava “arrivano li turchi”, perché, sa, qua è rimasta ancora questo modo di dire antico», continua sorridendo il dottor Bartolo. Ma i tre forse avevano ancora più paura degli abitanti dell’isola, visto che si rifugiarono in un albergo in costruzione. Li ritrovarono la mattina i muratori e loro scapparono per le campagne brulle dell’isola, tra i cespugli di timo e i fichi d’india.
Sull’isola, di migranti in cerca di salvezza dalla fame e dalle guerre ne erano arrivati, fino a quell’estate 2013, circa 200mila. Il dottor Bartolo detiene un record speciale, li ha visitati quasi tutti. E quando ne parla lo fa con affetto. Del resto uno di loro, lo ha adottato: è Omar, giovane tunisino, sbarcato a Lampedusa nell’anno della grande fuga dopo le rivolte nel Nordafrica, il 2011. «L’ho fatto studiare da mediatore culturale», dice Pietro.
Il 2011. Un anno terribile, quello. In tutto a Lampedusa ci furono – dati della Capitaneria – 51.922 sbarchi di cui 29.124 di tunisini. Il 14 marzo a Lampedusa c’erano oltre 7mila immigrati, tutti giovani sui trent’anni. Un migliaio in più rispetto agli abitanti. Fu l’epoca della “collina della vergogna”. Perché visto che il centro di prima accoglienza era stracolmo (è il 2011 in cui viene incendiata un’ala), i migranti trovarono rifugio, in massa, nell’area della stazione marittima a ridosso dei pontili. Le immagini televisive di tutti quei ragazzi accampati alla buona sotto i teloni di plastica non si possono cancellare. Sono i giorni dell’incapacità colpevole di un governo di centrodestra che rimase con le mani in mano, lasciando che a soccorrere i migranti fossero gli stessi abitanti di Lampedusa.
Ma che gente splendida quella dell’isola. Se n’è accorto anche Gianfranco Rosi che ne ha raccontato nel suo film la grande solidarietà. Varie volte è stata lanciata la proposta di candidare i lampedusani al premio Nobel. Il sindaco Giusy Nicolini, eletta nel 2012, surclassando i vecchi e ambigui poteri isolani, lo ha ripetuto tante volte: «Lampedusa è l’avamposto dell’Europa». Poi non se n’è fatto nulla, ma in quell’agosto 2013 bastava passeggiare per la centrale Via Roma, la sera, tra i tavoli dei ristoranti, le orchestrine scatenate e lo struscio di residenti, turisti e lampedusani di ritorno, per accorgersi della naturalezza con cui tutti trattavano quei gruppetti di ragazzini eritrei e somali che in tuta e maglietta si aggiravano alla ricerca di un bancomat o si fermavano avidi davanti alle magliette dell’isola, quelle inconfondibili, con la tartaruga.
Il dottor Bartolo di storie ne ha tante da raccontare. «È gente disperata, che affronta qualsiasi cosa pur di andare via da quella terra che è la loro patria. Io non mi commuovo facilmente ma qualche tempo fa mi è successo. C’era un ragazzo di 17 anni con la frattura al ginocchio consolidata malamente, che gli aveva procurato un’anchilosi dell’articolazione destra, non poteva camminare. Quando sono arrivati con la motovedetta l’abbiamo preso di peso per trasportarlo poi con una sedia a rotelle. A quel punto si è sentito un grido ed è arrivato un ragazzo – che poi era il fratello – che se lo è caricato sulle spalle. Allora ho capito. Dalla Somalia fino alla Libia attraverso il deserto e poi in mare era stato portato sulle spalle dal fratello!». Il dottore lo racconta in modo tale che sembra di essere lì, sul molo, a vedere quella scena. Non c’è un filo di retorica nelle sue parole. È un medico, racconta i fatti, ma lo fa con una grande umanità. Come quando parla dell’odissea che molti di quei ragazzi avevano passato in Libia, rapinati e sequestrati, oppure del dramma vissuto da alcune ragazze, violentate. Poi il medico ridiventa medico e spiega le patologie riscontrate nei migranti che arrivano, sempre disorientati, sotto stress: disidratazione, ipotermia. Spesso hanno ustioni ma non da fuoco, bensì da contatto con sostanze chimiche, perché a bordo hanno taniche di benzina.
«Appena arrivano scatta il protocollo di intervento che abbiamo messo a punto con il Ministero della Salute e la Regione, io stesso faccio parte del tavolo tecnico». Si può parlare di un “modello Lampedusa” creato in collaborazione con i Carabinieri, la Guardia di finanza e la Capitaneria di porto e partito proprio dal 2011. «Una volta arrivati li visitiamo subito, quelli che stanno male li portiamo subito al pronto soccorso, se hanno bisogno di cure speciali li trasportiamo in terra ferma, abbiamo delle convenzioni con gli ospedali della Sicilia per cui non ci sono problemi di liste di attesa», continua il medico. Rispetto al 2011, quando i migranti erano quasi tutti giovani uomini, negli anni successivi arrivano sempre più donne e bambini. Donne anche incinte. «Qualche tempo fa è nata una bellissima bambina. La madre era in un barcone con più di 800 persone, erano tutti anchilosati, non finivano mai di uscire. Quando ecco questa donna incinta, le si erano rotte le acque, è stato un parto difficile» dice. Qualche volta i più giovani hanno delle crisi, crisi dissociative, depressione, hanno bisogno del sostegno psicologico, magari anche di un Tso. Poi ci sono le scene che il dottor Bartolo non dimentica e che racconta. Con una voce diversa, molto diversa.
Stranamente, non ho preso appunti. Ma ricordo tutto. È il racconto del barcone che approda all’isola con la stiva piena di corpi di ragazzi, morti da giorni. Tentavano di uscire da là sotto, non ce l’hanno fatta. Accade anche questo a Lampedusa, l’ultimo lembo d’Europa a Sud. Molto più generosa di tutto il resto del Vecchio continente che incombe con il suo tutto il suo carico di pregiudizi. Vecchio, appunto.