Città del Messico – Sono le due del mattino dell’8 febbraio. Un commando armato irrompe in casa di Anabel Flores Salazar, giornalista dello Stato di Veracruz. «Indossavano uniformi militari, portavano armi di grande calibro, casco, passamontagna e giubbotti antiproiettile», racconta Sandra Luz Morales, zia di Anabel. La giornalista non è più tornata a casa dai suoi due bambini, il secondo di appena 15 giorni. La foto del suo corpo seminudo, con le mani legate dietro la schiena, ritrovato ai bordi di un’autostrada alla periferia di Veracruz, rimbalza in ogni angolo del Paese. Assieme alla paura di quanti sono impegnati, a vario titolo, sullo stesso fronte di Anabel Flores.
Guiomar Rovida, accademica della Universidad autonoma metropolitana di Città del Messico, esperta in comunicazione e movimenti sociali, sfoga con Left la sua rabbia e la disillusione: «Non posso più andare avanti con tutto questo. Non posso più far girare la foto della giornalista assassinata, non posso più immaginare la sua terribile agonia né il dolore che avrà provato sapendo che stava per lasciare il suo bambino senza latte, senza madre. Non posso più ascoltare il report del gruppo forense argentino che smaschera il governo e le prove false che ha collezionato fino ad oggi rispetto alla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa. Non posso più leggere che ai genitori dei cinque ragazzi scomparsi a Veracruz il governo ha inviato soltanto una cassa di cartone con poche ceneri e un pezzo di tibia». Nel 1994 Guiomar Rovida fu la prima giornalista europea a scrivere del Movimento Zapatista e delle lotta delle sue donne. Ha collaborato con il subcomandante Marcos inviando i suoi messaggi, i famosi “comunicati”, in tutti i continenti. Di lotte e trasformazioni ne ha viste tante negli ultimi venti anni, ma la realtà di oggi prosciuga tutte le parole.
Questo articolo continua sul n. 8 di Left in edicola dal 20 febbraio