Non so cosa darei per avere i cacciaviti del cofano sopra agli ingranaggi delle emozioni. Mi piacerebbe ad esempio ascoltare il rumore che fanno le molle mentre mettono in moto la speranza

Non so cosa darei per avere i cacciaviti del cofano sopra agli ingranaggi delle emozioni. Mi piacerebbe ad esempio ascoltare il rumore che fanno le molle mentre mettono in moto la speranza. Penso che sia il suono violentemente dolce di una montagna che si sposta senza comunque fare male a nessuno, una cosa così. Perché se ci fosse il prodotto interno lordo della speranza, se fosse quello a sancire lo stato di salute di una nazione credo che avremmo delle sorprese da farci girare la testa: non sapete quanto la speranza si attacchi ai muri dei vicoli più bui, tra le fogne delle disperazioni più puzzolenti e tra le fragilità più invisibili.

Se ci fosse una Borsa della speranza, ad esempio, qui di fianco a me vive una donnetta anziana che sarebbe Ministro dell’Intelligenza Felice per come commenta con il sorriso i suoi ultimi acciacchi, i nomi ciancicati delle pillole che si prende e i prossimi sintomi che le verranno. La mia anziana vicina sarebbe una multinazionale della voglia di vivere, se ci fosse la Borsa della speranza. Per dire.

Per questo se c’è una cosa che mi spaventa per il carico enorme di responsabilità che si porta dietro è il “concorso in accensione di una speranza”. Essere tra quelli che si prendono la briga di associare una certa speranza addormentata ad una promessa, una promessa a forma di esca che si fa abboccare dalle bocche di tutti gli speranzosi di quel sogno lì.

Forse i meccanismi, quando la speranza inciampa per caso in una promessa e tutte e due si guardano in faccia e poi si piacciono da subito, forse in quel momento lì i bulloni e gli assi e le cinghie cominciano davvero ad andare su di giri fino a produrre il rumore consolante del moto, la sensazione che davvero ci si sposta, la tentazione di credere che ci si avvicini per davvero. Il figlio adottivo della speranza e della promessa, che nasce subito appena subito dopo che loro due si sono piaciute, è il progetto. Altra parola da volare via il progetto: in una parola sono riusciti a mettere insieme tutte le diverse declinazioni dello stesso proposito. Il progetto. È una parola da abitarci un mese per visitarla per bene.

Solo che poi quando le speranze cominciano a pedalare sul serio, con tutti quelli che ci soffiano sopra per appuntarsele sul petto, diventano un moto. E con i moti non si scherza. Chi decide di dare il calcetto per iniziare il rotolamento deve avere ben chiaro che tutti gli altri lo fissano per bene, mentre se ne sta fisso all’inizio della discesa come la braccia conserte e il sorriso sornione. Se ci pensate bene ve li ricordate per bene tutti quelli che vi hanno spinto. Che abbiate cinque anni o duecentocinque. Ve li ricordate tutti. E vi ricordate bene anche tutti quelli vi hanno convinto ad aprire la porta ad una speranza che bussa. Perché non c’è uomo più vicino al cielo dell’uomo quando spera. E se poi passano, le speranze, se della polvere bieca o uno strappo o tonfo stracciano i bulloni del meccanismo, allora diventano ferite. E non c’è niente di peggio di una speranza ferita. È come un stupro perpetrato al cuore. Anche se non è mica fuorilegge.

Ognuno tenga conto della responsabilità delle speranze e le loro ferite. Ognuno.

Buon martedì.

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.