Robert Mugabe, eterno presidente dello Zimbabwe lo ha annunciato senza peli sulla lingua: il governo nazionalizzerà tutte le miniere di diamanti del Paese. Monopolizzerà, dunque, «per impedire che le imprese straniere trafughino le gemme». Il grande vecchio Mugabe, 92 anni compiuti lo scorso 21 febbraio, è presidente del suo Paese sin dal 1987. Anticolonialista prima, marxista leninista poi, ha instaurato un regime dittatoriale, perciò il suo Zimbabwe è stato escluso dal Commonwealth, e lui è considerato “persona non grata”, uno status che gli nega l’ingresso nell’Unione europea e negli Stati Uniti. Ma di mollare lo scettro non se lo sogna nemmeno. A un giornalista che osato porgergli questa domanda ha risposto: «Vuole che le dia un pugno per accorgersi che sono ancora qui?». Anzi, sarà lui il candidato presidenziale alle elezioni del 2018 e, se vincerà, completerà il nuovo mandato a 99 anni.
«Non abbiamo ricavato molti soldi dall’industria di diamanti. Il nostro popolo non è stato in grado di vedere quello che stava accadendo, attraverso i furti e il contrabbando perpetrati dalle compagnie minerarie che ci hanno derubato della nostra ricchezza», ha detto Mugabe intervistato dalla Tv di Stato. Già lo scorso mese, il ministro per l’attività mineraria, Walter Chidhakwa, aveva annunciato il sequestro delle miniere di diamanti del distretto di Chiadzwa. Ma è Marange la principale delle miniere di diamanti del Paese. Situata al confine con il Mozambico e gestita in joint venture con i cinesi, la miniera è stata scoperta nel 2006. Fino ad allora erano solo due le miniere conosciute (River Branch al sud, la più antica, gestita per qualche anno da compagnie canadesi e australiane e poi venduta per la sua scarsa redditività, e Murowa al centro, sfruttata dal colosso minerario australiano Rio Tinto), in quell’anno vengono scoperti i diamanti a Marange, nell’area est del Paese, al confine con il Mozambico: diamanti disseminati in una grande area, lungo i corsi d’acqua, diamanti che si possono recuperare anche scavando con il piccone e la pala. In poche settimane la zona si riempie di cercatori di diamanti e Marange diventa un far west: militari e poliziotti contro cercatori e scavatori.
Massacri, uccisioni sommarie, torture, lavoro forzato, sfruttamento minorile: sono questi i tasselli dell’industria diamantifera zimbabwese. Nel 2009, un rapporto di Human Rights Watch ha denunciato l’immenso giro di prostituzione, contrabbando e corruzione a Marane. A seguito delle denunce, tra il 2009 e il 2011, la miniera di Marange ha subìto dal Kimberly Process (un sistema di certificazione concordato dai governi dei paesi esportatori e importatori di diamanti, con la collaborazione esterna dell’industria dei diamanti e delle Ong) un divieto internazionale di esportazione dei diamanti, al fine di escludere dal commercio mondiale i diamanti estratti in zone di conflitto e di grave violazione dei diritti umani. Gli emissari del Kimberley Process hanno constatato anche che i militari hanno già il controllo quasi totale dei campi diamantiferi di Marange, e che sono loro a manovrare la rete di contrabbandieri. Le vittime morte in questi anni nell’inferno di Marange sono ufficialmente più di 200, ma le cifre reali sarebbero nell’ordine di alcune migliaia, considerando il fatto che bambini e uomini sono costretti con la forza dall’esercito a lavorare nelle miniere, patendo fame e sete.
La miniera, scoperta dalla sudafricana De Beers, (che però non ha fiutato l’affare del secolo e ha rinunciato alla concessione) è stata trasferita dal governo alla britannica African Consolidated Resources. Fino al momento in cui il governo di Harare decide di prendere per sé quello che è uno dei più ricchi depositi di diamanti del mondo. Mugabe decide di non rispettare il diritto commerciale, si appella ad alcuni vizi di forma nel contratto ed espropria forzatamente l’impresa inglese. Intanto, lo Zimbabwe – rimane uno dei Paesi più poveri al mondo. Con un debito (stimato nel 2013) di 132 milioni di dollari nei confronti del Poverty Reduction and Growth Facility (Prfg), un’agenzie del Fondo monetario internazionale che sostiene i Paesi poveri e di 1,5 miliardi con la Banca mondiale e la Banca africana di sviluppo. Nonostante la ricca miniera. E la produzione di diamanti – scrive Bloomberg – non aumenta: nei primi 5 mesi del 2015 è scesa da 660 mila a 420 mila carati, e i proventi finiscono in gran parte nei paradisi fiscali. Dai diamanti, in Zimbabwe, non nasce nemmeno il letame.
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