È stato probabilmente il più grande scacchista di tutti tempi; solo la follia e il genio del leggendario Bobby Fischer possono competere con le straordinarie qualità del “mostro dai mille occhi” come lo definì un giorno il britannico Tony Miles dopo l’ennesima, umiliante sconfitta. Ma se l’americano è stato una meravigliosa meteora che, dopo aver conquistato la vetta ha sperperato il suo dono in un cupio dissolvi di paranoie e manie di persecuzione, Garry Kasparov è riuscito a rimanere al vertice più di chiunque altro, forgiando il suo talento nello studio e nella disciplina.
Dal punto di vista tecnico Kasparov è il giocatore perfetto; uno stile spettacolare e immaginativo costantemente votato all’attacco e all’iniziativa, una voglia di vincere e di combattere fuori dal comune, una dedizione al gioco che lo ha portato a ricercare (e a innovare) più di ogni altro contemporaneo. E naturalmente una memoria prodigiosa: «Ricordo perfettamente tutti i numeri di telefono che ho composto nella mia vita». Avrebbe potuto eccellere in qualsiasi altro campo, dalle scienze alle arti, ma gli scacchi, questa allegorica e cruenta simulazione della guerra che prevede una varietà infinita di mosse e varianti in un perimetro finito di caselle, erano il suo destino.
Garry è nato a Baku capitale dell’Azerbaijan il 13 aprile del 1963 e il 13, come lui stesso ama affermare, è sempre stato il suo numero feticcio, curiosa inclinazione per la numerologia per un devoto alla logica e alla razionalità. La sua data di nascita è un multiplo del 13, nell’85 (8+5= 13) è diventato il tredicesimo campione del mondo, un titolo raggiunto dopo la tredicesima vittoria.
Il padre Kim Moissevitch Veinstein, era un ebreo di grande cultura amante della musica e della letteratura, la madre Clara Kasparova un’armena appassionata di storia dell’arte dal carattere straripante; dopo la morte del marito avvenuta nel ’71, si dedica anima e corpo all’educazione del figlio al quale trasferisce anche il cognome. Una sera, quando aveva appena cinque anni, Garry risolve in pochi secondi un problema scacchistico sul quale i genitori erano impegnati da giorni. In teoria piccolo, non avrebbe dovuto conoscere le regole e i movimenti dei pezzi, eppure gli scacchi erano già una seconda lingua, quasi un dono degli dei e di Caissa, la musa del nobile gioco. Negli anni seguenti farà strabuzzare gli occhi ai maestri di tutta l’Urss per le sue vittorie strabilianti contro giocatori molto più esperti di lui. Passerà per il mitico e inevitabile Palazzo dei pionieri di Baku, fucina scacchistica in cui incontra Mikail Botvinnik, campione del mondo negli anni 50, vero e proprio monumento degli scacchi sovietici anche se ormai confinato ai margini del potere. Botvinnik riconosce subito la genialità di quel piccolo azero e lo mette sotto la sua ala protettiva, in quello che è stato l’unico sostegno “istituzionale” ricevuto dal giovane Kasparov: «L’avvenire del nostro gioco è nelle mani di questo piccolo».
A 12 anni è campione di Russia junior (competizione in cui partecipano giocatori fino a 19 anni), a 14 è il più giovane maestro di sempre, a 16 vince il suo primo grande torneo internazionale, a 19 è candidato al titolo mondiale in un ciclo in cui ha strapazzato ex campioni del mondo come Tigran Petrosjan e Vassilj Smislov o giocatori del calibro di Viktor Korchnoi. Ormai manca solo l’ultimo tassello, il più difficile.
Come in ogni epopea, la sua ascesa aveva bisogno di un alter-ego, di un eterno rivale o di un “super cattivo” che rappresenti il lato oscuro della forza per chi preferisce le semplificazioni narrative. Tutto questo si è incarnato nelle anonime fattezze di Anatolij Karpov. Oltre ad essere un giocatore di classe superiore e dai nervi d’acciaio, Karpov era il protegé del Cremlino, il prototipo di campione costruito in laboratorio, un prodotto della Guerra fredda, un Ivan Drago dell’intelletto. Gelido come un cubetto di ghiaccio, incapace di tradire emozioni, obbediente al sistema come un soldatino di piombo
Questo articolo continua sul n. 12 di Left in edicola dal 19 marzo