Temo che la notizia che scelgo, domani, non la troverete sulle prime pagine. Il tribunale per i minorenni di Roma ha concesso l’adozione di un bel maschietto ai due papà, che lo avevano avuto grazie all’inseminazione eterologa, cioè alla pratica, proibita in Italia, dell’utero in affitto.
Perchè mai? Perchè i due si amavano dal tempo dell’universita, perchè costituiscono una coppia stabile e il giudice li ha ritenuti affidabili. E perchè il bimbo non ha altri genitori che loro. Entrambi, senza fare differenze tra il papà che ha offerto il seme e l’altro che lo ama pur senza avere, per la metà che gli compete, lo stesso patrimonio genetico.
Cosa avrebbe dovuto fare d’altro, il giudice? Ordinare che si cercasse la donna che per 9 mesi aveva ospitato l’ovulo nel ventre? A questo punto esigere accertamenti per determinare se l’ovulo fosse suo o di un’altra sconosciuta? Poi costringere poi la madre naturale – quale? – a trasferirsi a Roma, a riconoscere il figlio e ad accudirlo con amore, magari unendosi un matrimionio col padre “naturale”?
Ammesso che si potesse fare – e ovviamente non si sarebbe potuto – c’è da chiedersi quanti infelici in più avremmo fatto. Certo, ci sarebbe stata anche un’altra strada: semplicemente non acconsentire all’adozione. Far sì che quel bambino andasse all’asilo, poi a scuola, restando sempre il pulcino nero, il diverso, il non figlio.
Il giudice ha invece scelto di tutelare anzitutto il diritto del minore. Poi di non frustrare il desiderio di paternità dei padri. E lo ha fatto ignorando le polemiche che si sono scatenate intorno alla legge sulle unioni civili e la stepchild adoption. Ora la sentenza è inappellabile perchè sono scaduti i termini per il ricorso. E niente come questa notizia – dimostra la stanca ritualità e la strumentale vacuita del nostro dibattito politico.
Mesi a vociare sui modelli di famiglia, sul diritto naturale e quello divino, fino a cancellare le persone in carne ed ossa, i loro desideri e i loro diritti. In questo caso, il desiderio di paternità dei due papà, con cui si può consentire o no, ma il diritto (unalienabile) del bambino a non essere discriminato.