«In quei due anni e mezzo, che sono lunghi, spesso ci capitava di ridere tra noi. A volte siamo arrivati a scherzare delle facce che avevamo fatto mentre ci picchiavano. Non è certo una bella cosa da raccontare, a guardarla da fuori, ma quella nostra capacità di ridere, ci ha aiutato a non dare di matto come è capitato ad altri».
Ruhal Ahmed è stato fortunato, più di una volta. E anche molto sfortunato, una volta sola, la volta che basta. Ruhal porta una maglietta blu della Gap, un jeans stretto-stretto come vanno di moda oggi, i capelli cortissimi con una riga sottile rasata, che va dalla fronte a sopra l’orecchio sinistro, una barba corta e ben curata, che in qualche vecchia foto appare più lunga e senza baffi (si avete capito, la barba del devoto musulmano). A vedersi è un tipico giovane uomo asiatico un po’ coatto della provincia britannica. Bicipiti e pettorali gonfiati in palestra compresi. Ma Ruhal è anche uno dei Tipton three, i tre giovani britannici di origine asiatica finiti a Guantanamo per una serie di arci-sfortunati eventi generati dal fatto che, come spiega lui stesso, «siamo stati parecchio ingenui e sprovveduti». La loro storia è quella raccontata in The Road to Guantanamo di Michael Winterbottom.
L’ex prigioniero numero 110 è alla Casetta rossa, uno spazio occupato di Roma per raccontare la sua storia assieme ad Amnesty International e sta parlando di sé e dei suoi tre amici ventenni, uno dei quali morirà nelle disavventure capitate durante il viaggio a causa di un missile sparato da un elicottero Apache. Partiti per il Pakistan per presenziare a un matrimonio combinato di un amico, un viaggio comune nella comunità asiatica britannica, i quattro «ragazzotti qualsiasi, nemmeno granché religiosi» si sono trovati a fare i conti con le conseguenze della lotta del bene contro il male messa in scena da Osama bin Laden e George W. Bush dopo l’11 settembre. Il matrimonio, infatti, era programmato nei primi giorni dell’ottobre 2001. «Il problema è che quando siamo partiti le conseguenze di quel che era capitato a New York non erano affatto chiare, la guerra e il terrorismo erano parole e che, una volta laggiù, abbiamo agito come una banda di adolescenti in cerca di cose strane e diverse da vedere».
E così, per farla molto breve, sono andati a fare una gita «e qualche canna» oltre confine, in Afghanistan, «che laggiù era come andare per noi oggi a Parigi o in Olanda», si sono trovati dalla parte sbagliata quando la frontiera è stata sigillata e sono cominciate a piovere bombe dal cielo, sono stati un po’ raggirati e un po’ non hanno capito che in una moschea dove si organizzava aiuto umanitario, in realtà si organizzavano partenze per il fronte di combattenti stranieri, sono stati ingannati e gli è stato fatto pagare un trasporto che invece di essere diretto di nuovo verso il confine, portava un gruppo di aspiranti martiri a Kunduz. Il tornante successivo è stata la consegna al generale Dostum, che a sua volta li passerà agli americani a Kandahar. Nel mezzo giorni di atroce prigionia nelle mani del signore della guerra uzbeko. «Quando ci passarono agli americani eravamo pesti, disidratati, avevamo la dissenteria, ma ci dicemmo “è fatta, si torna a casa”. Ci sbagliavamo di grosso». Dopo maltrattamenti in loco da parte dei militari americani al fronte – la guerra è appena cominciata e le Torri gemelle un ricordo vivido – il volo verso Cuba, legati e in una condizione di privazione sensoriale. «Una cosa che fa ridere di quel viaggio? Eravamo bendati e con le orecchie tappate e avevamo le mani legate. Avevamo fame, ci mettono un panino con burro d’arachidi sulle gambe e dopo un po’ si chiedono perché non lo mangiavamo. Poi una mela, poi dell’acqua…e continuano a domandarsi tra loro perché non mangiavamo. Avevo l’acquolina in bocca e non potevo dire: scioglietemi le mani o imboccatemi!» racconta ridendo e scuotendo la testa.
Poi due anni e mezzo a Guantanamo, le deprivazioni, l’heavy metal ascoltato a volume assordante per ore, le botte. E quella minaccia reiterata: «Nessuno sa che siete qui, non ve ne andate più e se non collaborate la pagheranno anche le vostre famiglie». «Siamo rimasti a Camp Bucca per tutto quel tempo senza imputazioni. Prima hanno provato a dire che comparivamo in un video in cui bin Laden faceva un suo sermone, ma io all’epoca dovevo firmare in commissariato per delle sciocchezze fatte e il mio amico andava al college e il giorno in cui il video era stato girato eravamo entrambi dove dovevamo essere. Il tentativo di trovarci un legame con al Qaeda cambiava sempre, l’unica cosa che non cambiava è il tentativo di farci confessare cose che non avevamo fatto con intimidazioni e violenze».
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Ruhal è convinto che a lui e ai suoi amici sia andata meglio che ad altri, i mezzi più estremi e duri con loro non sono stati usati perché sono cittadini britannici: «Agli yemeniti, ai sauditi andava molto peggio». Come va peggio oggi: Obama ha annunciato per l’ennesima volta di voler chiudere la prigione. Il piano c’è, il quadro legale molto meno. E in molti corrono il rischio – come già capitato in questi anni – di finire carcerati, torturati o addirittura uccisi dai Paesi nei quali vengono rispediti. Nessuno sa che farsene degli yemeniti ancora a Cuba, nessuno li vuole e Washington sta facendo di tutto, come fa da anni, per convincere paesi piccoli e grandi, vicini e lontani, a prendersi qualcuno di questi esseri umani rimasti incastrati tra le vicende della storia recente. Anche in Italia finirà qualcuno. I residui di Guantanamo sono merce di scambio diplomatica, sono scambio di favori tra leader. Come i quattro uiguri finiti a doversi rifare una vita a Bermuda. «Gitmo va chiusa, è un simbolo ed è anche il luogo di prigionia di poche persone rimaste abbandonate laggiù, senza aver subito un processo, né una condanna, persone sottoposte a torture, dimenticate».
E che ricordi ha del Pakistan e dell’Afghanistan prima della sua avventura? Con che occhi guarda un ventenne cresciuto a Tipton la vita in Pakistan? «In realtà conserviamo molte cose in famiglia: il cibo, la religione, alcuni costumi, la lingua. Per questo l’arrivo in Pakistan non fu uno choc culturale. Del resto ero già stato a trovare i parenti in Bangladesh, che la mia famiglia è originaria di là, anche se nessuno ci crede perché sono troppo chiaro di pelle». Ruhal adora andare in Bangladesh ancora oggi: «A fine anno vorrei andare, per qualche settimana faccio una vita da nababbo, tutti mi riveriscono e mi sento ricco. Poi torno a casa e mi sveglio».
La verità è che la casa di Ruhal nei sobborghi di Birmingham non è male e che lui, oggi se la cava benissimo: «Ho quattro figli, un’impresa di impianti del gas con mio fratello e dei dipendenti. Oggi se finissi una settimana in un posto come Guantanamo diventerei matto: all’epoca io e gli altri non avevamo responsabilità, non pensavamo a nulla ed eravamo un po’ faciloni. Questo ci ha salvato la vita, ci sono altri che sono impazziti, alcuni si sono uccisi. Quanto a me, quell’esperienza mi ha reso un uomo migliore: ho capito il valore dei diritti, imparato a dare il giusto peso alle cose e mi sono impegnato contro la tortura dopo essere tornato a casa e aver capito che senza la pressione internazionale e il lavoro di Amnesty ed altri, magari non sarei mai uscito o sarei rimasto li dentro più a lungo. Ho anche la mia causa contro il governo britannico, che mi ha abbandonato e poi mi ha dovuto chiedere scusa». Lui e i suoi amici si sono anche incontrati con una guardia di allora, uno con il quale chiacchieravano e parlavano di musica (qui il video dell’incontro), che essendo entrambi ragazzi d’Occidente, avevano gli stessi gusti. Quanto agli altri amici che hanno vissuto l’incubo Guantanamo con lui: «Continuiamo a vivere vicini e una sera a settimana usciamo insieme».