Conoscerli per combatterli. Ibrahim El Bakaoui è uno dei tre uomini che avete visto in foto sui giornali mentre spingono altrettanti carrelli carichi di esplosivo nella hall delle partenze dell’aeroporto. Ibrahim, prima di farsi esplodere, aveva lasciato un messaggio vocale in un sacco della spazzatura. “Mai come Salah”, diceva. L’onta del “martire” designato, Salah appunto, che il 13 novembre a Parigi ha avuto paura del nulla, si è tolto la cintura esplosiva e ha scelto di vivere è la colpa disonorevole che gli attentatori -e i loro mandanti- dovevano a qualunque costo cancellare. “Non so più che fare (che altro fare)” avrebbe detto anche questo, nel suo ultimo messaggio, Ibrahim. Dopo una vita senza futuro. Condannato nel 2011 a nove anni di prigione, per una rapina a mano armata finita male, in cerca di una nuova vita si era convertito finendo nella setta Is. Il viaggio iniziatico nel paese della Daesh, la decisione finale di ammazzarsi ammazzando. Il fratello Khalid non era con lui nella foto. Si sarebbe fatto saltare poco dopo nella metropolitana. Gli altri due dell’aeroporto, non sono ancora stati identificati. Uno sarebbe forse l’altro kamikaze dell’aeroporto, il terzo ancora in fuga. Però la polizia è entrata nel “covo” dei fratelli El Bakroui e ha trovato 15 chili di esplosivo, 150 litri di acetone, 30 di acqua ossigenata, detonatori. Una bomba che avrebbe fatto chissà quante altre vittime. Ma che non è arrivata a destinazione. E questa è una storia davvero belga, come nelle barzellette sui belgi o in una bande dessinée belga. I terroristi avevano chiesto un pulmino capiente, quella mattina per poter svolgere il loro lavoro di morte. La centralinista del servizio taxi, però, non aveva capito. Così si vedono arrivare sotto casa una utilitaria. La morte ha fretta e loro cercano di convincere il tassista a caricarsi tutte e tre le valigie bomba. Ma un tassista belga è un belga al cubo: niente da fare, la terza, la più grossa rientra nel covo. Intanto il belga alla guida si fissa bene in mente quelle facce, quelli che lo volevano convincere a fare una cosa che non voleva fare. E che alla fine non aveva fatto. Subito dopo il macello all’aeroporto e nella metropolitana, li riconosce nelle fotografie diffuse in televisione: chiama la polizia e la porta nel covo. Sono fatti così. Attentano alle nostre vite ma possono poco contro un belga testone.

Conoscerli per combatterli. Ibrahim El Bakaoui è uno dei tre uomini che avete visto in foto sui giornali mentre spingono altrettanti carrelli carichi di esplosivo nella hall delle partenze dell’aeroporto.

Ibrahim, prima di farsi esplodere, aveva lasciato un messaggio vocale in un sacco della spazzatura. “Mai come Salah”, diceva. L’onta del “martire” designato, Salah appunto, che il 13 novembre a Parigi ha avuto paura del nulla, si è tolto la cintura esplosiva e ha scelto di vivere è la colpa disonorevole che gli attentatori -e i loro mandanti- dovevano a qualunque costo cancellare.

“Non so più che fare (che altro fare)” avrebbe detto anche questo, nel suo ultimo messaggio, Ibrahim. Dopo una vita senza futuro. Condannato nel 2011 a nove anni di prigione, per una rapina a mano armata finita male, in cerca di una nuova vita si era convertito finendo nella setta Is. Il viaggio iniziatico nel paese della Daesh, la decisione finale di ammazzarsi ammazzando.

Il fratello Khalid non era con lui nella foto. Si sarebbe fatto saltare poco dopo nella metropolitana. Gli altri due dell’aeroporto, non sono ancora stati identificati. Uno sarebbe forse l’altro kamikaze dell’aeroporto, il terzo ancora in fuga. Però la polizia è entrata nel “covo” dei fratelli El Bakroui e ha trovato 15 chili di esplosivo, 150 litri di acetone, 30 di acqua ossigenata, detonatori. Una bomba che avrebbe fatto chissà quante altre vittime. Ma che non è arrivata a destinazione.

E questa è una storia davvero belga, come nelle barzellette sui belgi o in una bande dessinée belga. I terroristi avevano chiesto un pulmino capiente, quella mattina per poter svolgere il loro lavoro di morte. La centralinista del servizio taxi, però, non aveva capito. Così si vedono arrivare sotto casa una utilitaria. La morte ha fretta e loro cercano di convincere il tassista a caricarsi tutte e tre le valigie bomba. Ma un tassista belga è un belga al cubo: niente da fare, la terza, la più grossa rientra nel covo.

Intanto il belga alla guida si fissa bene in mente quelle facce, quelli che lo volevano convincere a fare una cosa che non voleva fare. E che alla fine non aveva fatto. Subito dopo il macello all’aeroporto e nella metropolitana, li riconosce nelle fotografie diffuse in televisione: chiama la polizia e la porta nel covo.

Sono fatti così. Attentano alle nostre vite ma possono poco contro un belga testone.