Nel 1986, in una valle remota del Camerun, duemila persone morirono in silenzio durante la notte. Uomini, donne e bambini si erano spenti insieme alle loro mucche, ai loro polli, agli uccelli, ai babbuini e alle formiche. Intorno nessuna traccia di distruzione, nessun danno. Solo molti anni dopo gli scienziati arrivarono all’ipotesi che ad uccidere senza lasciare tracce visibili fosse stata una esalazione di anidride carbonica dal lago Nyos. Nel frattempo però molte leggende sono scaturite da quel tragico evento.
Ne L’enigma del lago rosso pubblicato da Iperborea, lo scrittore olandese Frank Westerman cerca di ricostruire cosa accadde ma, soprattutto, attraverso la voce di testimoni e studiosi si interroga sul processo di mitopoiesi e sui modi della trasmissione orale delle storie. Dopo un intervento nell’ aprile al Book Pride di Milano, lo scrittore torna in Italia per partecipare al Festival della letteratura di viaggio, domenica 25 settembre a Roma
Wasterman che cosa ha scoperto studiando le leggende della valle di Nyos?
All’inizio mi sono trovato davanti a un vero enigma. L’accaduto lasciava spazio alle ipotesi più varie, alle dietrologie e, sulle sponde del lago, ai canti, alle preghiere, ai racconti. Le storie trovano sempre dove fare il nido. Gli esseri umani creano un intero mondo intorno ai fatti, li alimentano di significati, di interpretazioni. Viviamo immersi in quel mondo fantastico che colora e trasforma la realtà.
Ancora oggi le cause della strage non sono state del tutto chiarite?
A più di 25 anni di distanza la scienza non ha prodotto una spiegazione univoca e incontrastata. E l’esercito del Camerun sta ancora pattugliando un tratto di 18 km come zona vietata. Quando l’ho saputo ho immediatamente progettato di tornare là. Quel mistero mi ha colpito profondamente. Ho pensato che quella vicenda poteva essere un “laboratorio” per capire come nascono le storie che poi finiscono per diventare miti e leggende. Come è cresciuta quella selva di narrazioni? A cosa assomiglia quella proliferazione? E quale influenza esercita su di noi? Quando nel 1992 per la prima volta andai in Camerun ero un giovane reporter radiofonico e mi domandavo cosa fosse successo. Tornandoci poi da scrittore mi sono chiesto che cosa racconta la gente di ciò che è accaduto. Ciò che mi sembra sempre più evidente è che siamo più influenzati dalle costruzioni culturali più che dalla natura intesa come ambiente fisico, correnti, uragani, terremoti. I nazisti credevano che la razza ariana fosse superiore alle altre. La schiavitù ha trovato “giustificazione” nella religione che parla di un ordine voluto da Dio. Parliamo di mitologie basate su una feroce ideologia. Più in generale, invece, la fantasia è il nostro habitat naturale. Mi affascina osservare come le storie mutino nel tempo, come si moltiplicano se vengono dette e ridette, come evolvono, si trasformano.
La religione cattolica sostiene che il Male è in ogni essere umano come peccato originale. C’è bisogno di una nuova antropologia, più laica, per studiare e conoscere la realtà umana?
Io penso che l’antropologia si sia liberata dalla maggior parte dei pregiudizi cristiani, già da decenni. Ha fatto molta strada e altra ne farà. Riguardo all’Africa per esempio è partita considerando in modo positivistico e razzista la misura del cranio come indicatore di intelligenza ed è arrivata nel ‘900 ad essere la scienza sociale per eccellenza che continuamente ci rimanda indietro la nostra immagine di occidentali europei in maniera critica. Anch’io, in qualche modo, cerco di farlo ne L’enigma del lago rosso. Come? Dando ai superstiti del misterioso lago Nyos l’ultima parola. I cantastorie, i griot, non sono una realtà solo africana: tutti gli esseri umani hanno una dimensione di fantasia e ognuno di noi contribuisce alla narrazione collettiva.
Nel suo Ararat (Iperborea 2010) lo scienziato Salle Kroonenberg racconta che solo quando si è ammesso che il diluvio universale è un’allegoria si è sbloccata la ricerca nel campo della geologia. Questa credenza ha anche ritardato, per esempio, lo studio della storia della Mesopotamia e la scoperta dell’epopea di Gilgamesh.
Alla fine la leggenda dell’arca di Noè si è rivelata più tenace di storie avventurose come il viaggio sul brigantino Beegle che Darwin intraprese per fare ricerca. In effetti c’è un filo rosso che lega L’enigma del lago rosso e Ararat. Personalmente vorrei che mia figlia studiasse la teoria di Darwin a scuola e allo stesso tempo avesse la possibilità di godere della bellezza delle storie prendendole come tali. Oggi ha 13 anni e di recente le ho mostrato un video di youtube in cui fondamentalisti dell’Isis distruggono dei reperti antichi a Ninive. L’ha impressionata molto e mi ha detto: «Papà, non ti deprimere, è esattamente quello che loro vogliono».
Ne El Negro ed io (Iperborea, 2009) racconta di aver visto in un museo spagnolo il corpo imbalsamato di un africano senza nome. «Il modo in cui l’abbiamo guardato e lo guardiamo tradisce il nostro pensiero su razza e identità», lei scrive. Quanto di quello sguardo razzista c’è nelle politiche europee verso i migranti?
Molto direi. Ma fortunatamente la nostra visione dell’ “altro”, dello “straniero” non è sempre la stessa, cambia nel tempo. Ci sono state molte ondate di migrazioni in Olanda, ugonotti portoghesi, ebrei; gli stessi olandesi sono emigrati in massa nel “nuovo mondo” e in Australia, per centinaia di anni fino agli anni Cinquanta e Sessanta. Hanno sperimentato cosa significa essere stranieri L’identità di un popolo è anche definita da come lo vedono gli altri popoli. Ai tempi del conflitto in Jugoslavia ero corrispondente di guerra: serbi, croati e bosniaci avevano rapporti di interdipendenza, contava molto come si percepivano, differenze li definivano reciprocamente. Franz Fanon non a caso diceva: «Diventi un nero solo quando incontri un bianco». Gli incontri sono sempre “a doppio senso”. Si cresce in questa dialettica. In Bosnia ho visto villaggi con una millenaria storia multietnica diventare teatri di pulizia etnica. Solo i Serbi sono rimasti alla fine. E devo dire era una scena davvero pietosa. Come vedere qualcuno in pista che balla da solo il valzer, avendo perso il proprio partner.