La colpa è probabilmente della geografia, ma l’Italia sembra avere una particolare propensione a fare affari con i Paesi rispettosi dei diritti umani. O almeno questa è l’idea che uno si fa a leggere i dati contenuti nel rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2015. L’anno passato sono state messe a morte 1634 persone, il primo, dopo 25 anni, nel quale il numero di esecuzioni è cresciuto. La buona notizia è che in quattro Paesi la pena capitale è stata abolita per ogni fattispecie di reato e che, con i nuovi arrivi, i Paesi abolizionisti sono 102, più della metà, quelli dove non si manda a morte nessuno, nonostante la pena capitale non sia stata cancellata dal codice, sono ancora di più.
L’aumento del numero di esecuzioni segnala dunque un inasprimento della repressione in alcuni Stati. Che vuol dire? Partiamo dai dati. I Paesi che guidano questa classifica poco onorevole sono stati, nell’ordine, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America. Per la Cina non si conosce il numero, essendo segreto di Stato, ma certo è che le esecuzioni sono state migliaia. Forse in lieve calo.
L’Iran ha messo a morte almeno 977 prigionieri, rispetto ai 743 del 2014, la maggior parte dei quali per reati di droga. L’Iran è rimasto uno degli ultimi paesi al mondo a eseguire condanne a morte inflitte a minorenni al momento del reato, in palese violazione del diritto internazionale: almeno quattro nel 2015. Il Pakistan ha proseguito nella scia di omicidi di Stato iniziata nel dicembre 2014 con la fine della moratoria sulle esecuzioni di civili. Nel 2015 sono stati impiccati oltre 320 prigionieri, il maggior numero mai registrato da Amnesty International. In Arabia Saudita le esecuzioni sono aumentate del 76 per cento rispetto al 2014, con almeno 158 prigionieri messi a morte. La maggior parte delle condanne è stata eseguita mediante decapitazione ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione. Talvolta, i cadaveri dei condannati a morte sono stati esibiti in pubblico. Amnesty International ha registrato un considerevole aumento delle esecuzioni anche in altri paesi, tra cui Egitto e Somalia.
Se si esclude l’Iran, dove la mano ferma del boia è anche figlia di una politica aggressiva e “religiosa” – e sbagliata – contro la diffusione e il commercio di droga, il Pakistan, l’Arabia Saudita e l’Egitto sono casi in cui repressione e pena di morte camminano di pari passo: casa Saud usa il reato di apostasia come strumento per mettere a morte (o condannare) oppositori sciiti o persone che si distinguono per pensare ed esprimersi in maniera libera. Come ad esempio il poeta palestinese Ashraf Fayadh, condannato a morire perché un testimone lo avrebbe sentito bestemmiare. Dell’Egitto non c’è neanche da dire: la stessa condanna a morte non eseguita (e ancora passibile di appello) all’ex presidente Morsi è un esempio ottimo di uso politico della pena capitale.
Inutile ricordare come l’Italia sia il primo partner commerciale dell’Egitto – con il quale ha i suoi problemi anche per il caso Regeni – e come venda armi, violando le sue stesse leggi, all’Arabia Saudita. In Pakistan c’è invece un piccolo paradosso illustrato dal caso di Mumtaz Qadri, ex poliziotto ucciso dal boia a fine marzo: questi aveva a sua volta ucciso un governatore che non aveva abolito una legge che cancella la pena di morte in caso di blasfemia. Qadri, insomma, è stato ucciso per essersi opposto con la violenza alla riduzione dell’ambito in cui si applica la pena di morte. La sua esecuzione ha scatenato proteste violente in tutto il Paese da parte delle formazioni politiche più radicalmente islamiste.
In Cina, Iran e Arabia Saudita, si emettono condanne a morte per reati – tra cui traffico di droga, corruzione, adulterio e blasfemia – che non sono considerati tra i “reati più gravi” per i quali il diritto internazionale lascia spazio all’uso di questo strumento estremo.
I Paesi dove la pena di morte è stata abolita sono Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname – mentre in Mongolia è stato adottato un nuovo codice penale abolizionista che entrerà in vigore nel corso di quest’anno. In generale, se si eccettua il ritorno delle esecuzioni in Ciad, dove sono stati fucilati dieci appartenenti a Boko Haram, in Africa si registra un netto calo, opposto il caso del Medio Oriente.
[divider] [/divider] L’appello di Amnesty per salvare la vita a un blogger nel braccio della morte in Mauritania
Mohamed Mkhaïtir è un blogger di 32 anni che ha osato criticare coloro che usano la religione per emarginare alcuni gruppi sociali nel suo paese, la Mauritania. Un post pubblicato su Facebook gli è costato una condanna a morte, il 24 dicembre 2014. Il giudice del tribunale di Nouadhibou, nel nord-ovest della Mauritania, ha accusato Mohamed di apostasia per aver “parlato con leggerezza” del profeta Maometto.
Arrestato il 5 gennaio 2014, ha passato i primi sei mesi della sua detenzione in isolamento, senza servizi igienici, neanche una doccia.
Mohamed Mkhaïtir si è pentito due volte del suo atto, sia prima che durante il processo, spiegando che il suo testo era finalizzato a denunciare quelli che usano la religione per sminuire alcune categorie sociali e non destinato a criticare il profeta Mohamed o la religione islamica. Sebbene l’articolo 306 del codice penale preveda misure di clemenza in caso di pentimento, la corte non ha mostrato alcuna indulgenza.
I suoi avvocati hanno presentato l’appello contro la sua condanna a morte nel dicembre 2014. Ad oggi deve ancora essere fissata una data per l’udienza di appello.