Diretta, schietta, immediata. Quando parla, ci guarda fissa negli occhi. Non abbassa mai lo sguardo, nemmeno alle domande più scomode. Non sembra conoscere il politichese né linguaggi intellettualoidi. Ada Colau, 42 anni, viene dal popolo: «Sono cresciuta in un quartiere povero e fin da piccola mia madre mi portava alle manifestazioni durante la Transizione. Ho sempre fatto politica in strada, mi sento un’attivista per i diritti sociali». Dai movimenti di lotta per la casa alle istituzioni: sindaca di Barcellona, dal giugno 2015. Il grande salto.
Ci accoglie nell’Ayuntamiento. Il Comune è un palazzo stile barocco. Lo sfarzo. Ci sediamo su un divano in una sala magnifica con affissi vari Mirò. La sua stanza. «Era già così, non c’è niente di mio» quasi si giustifica Colau, la quale ci indica una foto sulla sua scrivania, «è l’unica cosa che ho scelto e voluto». L’immagine ritrae l’anarchica antifranchista Federica Montseny. «Qualche giornalista mi chiede se è mia nonna, figuriamoci!», sorride. Si stempera la tensione. Una capacità innata di creare empatia col prossimo. La pasionaria degli Indignados. Nella conversazione ci impone di utilizzare il tu: «Ho sempre ammirato l’Italia.
Il tuo è un governo di minoranza, con Barcelona en Comù hai ottenuto 11 consiglieri su 40, e la maggioranza è 21. Quanto è complicato mediare, di volta in volta, con gli altri partiti?
Le maggioranze politiche le costruiamo in base agli obiettivi e in questi giorni stiamo negoziando per poter ampliare il governo e approvare i bilanci. Certo, non è facile. L’aspetto peggiore è dialogare con partiti che hanno decenni di esperienza nelle istituzioni e utilizzano “mezzucci” di ogni tipo: in pubblico affermano una cosa, in privato ne fanno un’altra. Fanno i propri interessi non quelli di Barcellona. In questo clima, non è facile resistere e siamo ancora lontani dalla costruzione di una nuova egemonia. Però, Barcelona en Comù, facendo campagne sociali e ora dal governo, ha già cambiato l’ordine del giorno e la storia della città: il contrasto alle ingiustizie sociali e alle asimmetrie di potere si collocano come dorsali dell’agenda politica. E ancora, il governo della città ha incoraggiato il dibattito e l’azione contro la riapertura dei Cie; Barcellona si è dichiarata città ospitante e una base logistica di accoglienza e sostegno per i rifugiati.
Da un punto di vista economico i municipi sono stritolati dal Patto di Stabilità. Stai pensando a delle formule per resistere ai diktat dell’Europa e ai paradigmi dell’austerity?
Devono esistere, per forza, ne va della vita della democrazia. Se questa è l’Europa, l’Europa è finita, non serve più. È stata fondata per uscire dall’orrore del nazismo e della Seconda guerra mondiale, per dire: “mai più”. E adesso abbiamo milioni di persone alle nostre frontiere che muoiono perché si bunkerizza. Questo ha a che fare con il tema del debito: l’Europa dei mercati si è imposta sull’Europa delle persone e sta portando a una sofferenza ingiustificabile perché le risorse, in realtà, ci sono, ma sono gestite in modo diseguale. Stiamo parlando di una crisi globale dove c’è un vulnus di democrazia, non è un discorso che riguarda solo Barcellona, la Spagna o l’Europa.
L’intervista continua sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile