«Sono qui perché da 30 anni canto della differenza che c’è tra l’American Dream e la vita reale. Quella differenza l’ho vista mentre crescevo con i miei genitori operai del New Jersey e in mille altri posti. A volte la differenza tra ricchi e poveri si riduce. Negli anni 60 è successo. Ma la differenza tra quei momenti alti e la vita di tutti i giorni è grande e voi questo lo sapete, lo sappiamo tutti». A parlare a 3mila persone assiepate nella palestra di una scuola è Bruce Springsteen. Siamo nel 2012 a Parma, in Ohio, e il pubblico accorso ad ascoltare lui e l’ex presidente Clinton che fanno campagna per Obama è composto di omoni vestiti con pesanti felpone grigie con il cappuccio, signore corpulente, cappellini e giacche di pelle, jeans. La folla che ha fatto ore di coda per entrare è la middle class operaia che quando era giovane si innamorava con le ballate del Boss e ascoltava “Born to Run” in macchina con la cassetta di Budweiser nel sedile del passeggero. Le canzoni del boss parlano di loro.
C’era una ragione per cui in Ohio i democratici mandavano Springsteen e Bill Clinton e non Obama: la middle class bianca della Rust Belt, la cintura della ruggine industriale d’America è il tallone d’Achille del partito. E, per parlarci, serve un campione assoluto come Springsteen e l’ultimo presidente che è riuscito a farsi votare in massa dagli operai bianchi.
Quattro anni dopo il mondo è cambiato ed è identico: i candidati alle primarie parlano molto a quella gente che si sente dimenticata. E la working class sembra rispondere. A rivolgersi con le parole giuste a queste persone, in Ohio, Wisconsin, Michigan, Indiana, Minnesota, Pennsylvania sono Bernie Sanders e Donald Trump con i loro strali contro il commercio internazionale. «Ci riprenderemo i nostri posti di lavoro dalla Cina e da tutti gli altri Paesi», è una frase che il miliardario newyorchese ripete in ogni comizio. Quanto a Sanders, ci tiene a ricordare che lui è sempre stato contro i trattati commerciali «pensati per le corporation», non come la Clinton, che su questo insegue.
I due outsider delle primarie di entrambi i partiti hanno vinto in molti Stati della Rust Belt o in quelli con un elettorato simile dal punto di vista demografico: poche minoranze, molti lavoratori ed ex lavoratori industriali – o un passato da Stato industriale che mantiene quella cultura pur in un mondo radicalmente mutato. I temi sono i medesimi, l’esportazione di posti di lavoro verso la Cina e il Messico, la necessità di introdurre regole o dazi, ma la posizione cambia a seconda del pulpito.
Trump fa sfoggio di posizioni isolazioniste e protezioniste, promettendo di mettere in riga la Cina e gli altri Paesi che manipolano le valute; e sa bene che affrontando tali temi tocca un nervo scoperto in quel grande bacino di pubblico che sono i bianchi lavoratori ed ex lavoratori industriali che hanno visto scomparire le fabbriche. Bernie Sanders usa un tono più serio, ma sempre populista, ricordando come gli accordi di commercio internazionale abbiano danneggiato il lavoro e contratto occupazione, produzione e livelli del reddito. Né dimentica di citare i danni prodotti all’ambiente, negli Stati Uniti e nel mondo. Su Trans-Pacific partnership (Tpp) e Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), i trattati commerciali con Asia ed Europa in discussione in questi mesi, anche Hillary Clinton ha preso le distanze dall’amministrazione Obama, ed è stato forse l’unico strappo di una campagna che per il resto tende ad identificarsi con il presidente. Il senatore del Texas Ted Cruz è meno netto, ma anche lui insiste sulla necessità di far tornare posti di lavoro in America. Insomma la verità è che i trattati commerciali non sono popolari.
Questo articolo continua sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile