Il testo riformato della Costituzione della Repubblica italiana è stato approvato in seconda lettura da una Camera semivuota e con i soli voti della maggioranza. Le opposizioni hanno lasciato l’aula. Il testo è nato e si è imposto come espressione di parte e che soddisfa prima di tutto e solo una parte. È un esempio di come la politica ordinaria voglia costituzionalizzarsi; di come il potere di una parte voglia e riesca ad imporre le sue regole a tutti e su tutti. Dichiarando che chi si oppone non capisce o, se capisce, è conservatore. A questa visione manichea del prendere o lasciare – per cui hanno ragione solo coloro che vincono – si adatta bene lo stile maggioritarista di questo testo rivisto della Costituzione, un testo scritto con lo scopo dichiarato di dare alla maggioranza un potere straordinario – a questo serve la propaganda del “fare” e del “decidere”-, senza troppo preoccuparsi di equilibrarlo con poteri di garanzia e di controllo adatti a questo sbilanciamento esecutivista dell’ordinamento istituzionale. La legge di revisione della Carta appena approvata è come uno schiaffo al costituzionalismo liberaldemocratico che con fatica e alterne vicende si è fatto strada in questi due secoli e mezzo.
Dopo le Costituzioni “concesse” dell’Ottocento; dopo quelle conquistate e condivise del Novecento; una nuova categoria dovrà essere coniata per denotare questa revisione: quella di Costituzione imposta. La Costituzione della maggioranza è una Costituzione imposta – dividerà i cittadini come ha diviso il Parlamento e sarà a tutti gli effetti amata solo da chi ne gode i frutti, ovvero da chi governa (non importa chi). Questa revisione svela l’ipocrisia del governo rappresentativo, mostrando che, come scrivevano i critici della democrazia, esso non è che uno stratagemma astuto grazie al quale una minoranza comanda con il favore della maggioranza.
Ma chi difende la democrazia non può accettare questa concezione, non può concludere che, alla fin dei conti, tutti sono eguali e la differenza tra un governo democratico e un governo autoritario è solo una distinzione sofistica. Questa revisione e il modo con il quale è stata voluta e gestita fa un pessimo servizio alla democrazia – che in effetti disprezza grandemente facendone l’equivalente di un orpello retorico che serve solo a far perdere tempo a chi sta al governo. Il dirigismo (il mito scientista e buro-tecnicratico della governmentality di cui parlava Michel Foucault) è il mito che muove l’ideologia del “fare”. Visto che democrazia è una parola vuota, perché non mettere nero su bianco che chi governa deve avere una corsia preferenziale? L’ideologia sponsorizzata da questa revisione è un capitolo nel libro scritto dei critici della democrazia.
Per capirlo torniamo all’approvazione della riforma. Quell’importantissimo momento è passato senza quasi essere notato. Non ha avuto titoli cubitali e a tutta pagina. L’approvazione ha come chiuso un processo il cui esito era scritto – questo lo spirito che una stampa nazionale quasi tutta allineata con la maggioranza ha patrocinato, preparato e gestito. Tanta stanchezza dell’opinione si adatta poco al pomposo proclama con il quale Matteo Renzi presentò la proposta in Senato lo scorso ottobre – «aspettiamo questa riforma da settant’anni». Tanta stanchezza si spiega con il clima consensuale che circonda questa maggioranza risicata – segno della discrepanza tra opinione e numeri: questo spiega il senso della revisione imposta. Ha numeri risicati in Parlamento ma un’opinione quasi unanime orchestrata dai media nazionali. Chi governa? Governa l’opinione o governano i numeri?
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