La parole di Davigo, la risposta del premier e la storia d'Italia, che ci ha insegnato che negare un fenomeno è il più grande favore che si possa fare ai criminali che lo alimentano. Anche se non piace a Renzi.

Mettere sotto processo un magistrato per una frase che non ha mai pronunciato è l’ultima frontiera di un governo che usa il machete contro gli avversari ma pretende al massimo qualche carezza servile. L’irritabilità con cui Renzi (e i soliti renzini servetti) ha risposto alla frase (non detta) di Piercamillo Davigo è una tessera del puzzle del berlusconismo che fu caduta sull’Italia di oggi; e ovviamente il pezzo si incastra alla perfezione. Non è cambiato nulla, anzi peggio: è andato in scena un fragoroso cambiamento perché nulla cambiasse davvero, il remake de ‘Il Gattopardo’ in versione paninara con Fonzie al posto del Principe Salina.

Ma ciò che conta, al di là dei soliti miseri e guasconi comportamenti, è il senso della risposta che Matteo Renzi ha voluto confezionare per la stampa di Stato: «i giudici parlino con le sentenze» ha tuonato, inconsapevole di vivere in un Paese (e guidarlo, toh, pensa te) in cui la sentenza è il traguardo di un labirintico percorso ad ostacoli tra leggine “salvapotenti”, avvocati “succhiapallottole” e prescrizioni sempre in agguato. E se davvero dovessimo seguire l’ultimo comandamento secondo Matteo dovremmo rispondere che il governo risponda con le leggi, piuttosto, come quella per cancellare la vergogna italica della prescrizione a orologeria che l’Europa ci chiede da tempo.

Se alla politica fosse tolta la parola lasciandola solo all’azione (il legiferare, appunto) e la magistratura pensasse solo ai processi (senza parola come vorrebbero loro) forse basterebbe un mese per notare chi ne sarebbe smutandato per primo. Lui, Renzi, l’iniettore seriale di ottimismo, sogna un’Italia in cui i panettieri panificano, gli attori attorano, i giornalisti giornalano e nessuno si permetta di proferire parole per non disturbare il manovratore. Il dialogo o peggio ancora il dibattito non sono consentiti: l’interazione che ci è concessa sta nel cliccare cuoricini nella sua diretta settimanale su Facebook, si vede.

Eppure Davigo (che della riservatezza tra l’altro ha fatto una matrice professionale) disse giusto qualche giorno fa (era il 3 aprile di quest’anno): «Parlamento e governo sono liberi di fare le leggi che vogliono. Anche di depenalizzare i reati tributari, se l’Europa glielo permette. Ma non possono dire che così combattono l’evasione fiscale». Ecco, il punto sta tutto qui: se è vero che in democrazia (e sulla “democrazia” degli ultimi governi italiani ci sarebbe da scriverne un libro) un governo può legiferare come meglio ritiene opportuno è la stessa democrazia a pretendere che si sottoponga al giudizio continuo di chi opera in diversi ruoli, a tutti i livelli. Se siamo un Paese in cui un corrotto o un corruttore ha la stessa possibilità di finire in carcere di un cammello che passi  dentro la cruna di un ago ci sono solo due possibilità: o che le leggi non funzionino o che la corruzione sia più abile della nostra classe dirigente. E poiché corruzione e Stato fanno lo stesso mestiere (gestiscono denaro pubblico) o si dovrebbero fare la guerra fino allo stremo oppure convivono perché si sono messe d’accordo. Non serve un Davigo per seguire la logica.

Di sicuro c’è che la storia d’Italia ci ha insegnato qualcosa: negare un fenomeno è il più grande favore che si possa fare ai criminali che lo alimentano. Anche se non piace a Renzi.