Devo dire la verità, di movimenti nazionalisti e xenofobi avrei preferito non occuparmi. Meglio pensare al resto del mondo politico e a come cambia. Ma ahimé, i successi di questi partiti in tutta Europa mi hanno costretto a occuparmi anche di quel fenomeno». Colin Crouch, sociologo e scienziato politico britannico, autore di Post-Democracy e critico della deriva democratica nell’era del neoliberismo, sorride mentre si impone di parlare in italiano. Ci tiene, anche se la cosa finisce col rendere la comunicazione più complicata. Crouch ha appena parlato a un convegno alla Camera dei deputati (dove è stato invitato da Giulio Marcon) e ci fermiamo a discutere con lui dei temi che ha affrontato e che sono i suoi da tempo: la crisi delle forme della democrazia novecentesca, il declino della partecipazione in politica; un fenomeno che, a suo modo di vedere, consegna in questa fase storica un peso e una centralità enormi all’unica identità forte che rimane. Quella nazionale.
Lei ha parlato di una perdita di identità sociale che rende inservibili le strutture politiche novecentesche, mentre i movimenti che, per loro natura, vivono un tempo limitato, riescono meglio a intercettare le caratteristiche della nostra epoca e a rappresentarle più di quanto non facciano le strutture tradizionali. Quali sono i fattori che determinano la crisi dei partiti nazionali tradizionali?
Le ragioni di una profonda crisi delle strutture politiche tradizionali risiede – in Europa occidentale – nel declino del peso della religione e nei cambiamenti nella struttura delle classi sociali nella società postmoderna. Le identità di classe formatesi durante l’economia industriale erano fortemente segnate dalla politica e vivevano del conflitto tra inclusione ed esclusione: chi era fuori lottava per essere incluso, chi era dentro si batteva per tenere fuori gli esclusi. Quel periodo speciale della Storia si è concluso: la società contemporanea non sente di avere radici profonde, le identità senza radici non durano. Benché esistano ancora burocrazie e strutture politiche importanti, i rapporti tra queste e gli individui spesso diventano più frammentati, temporanei. I social media sono solo l’espressione estrema di questo fenomeno generale. I partiti e anche i sindacati pagano il prezzo forte per queste profonde trasformazioni. Il paradosso è che con l’imporsi di una cittadinanza universale, con uguali diritti per tutti, si perdono il significato e il ruolo politico delle strutture cresciute nel conflitto per ottenere quei diritti. Inoltre, la riorganizzazione post-industriale dell’economia contribuisce a frammentare le identità di ciascuno. Possiamo essere addetti a un call center, tifosi di una squadra, appassionati di un genere musicale e impegnati in politica allo stesso momento e con la stessa intensità. Alla domanda «chi sono io?» possiamo dare risposte molteplici, ma poche richiamano il ruolo della politica.
La globalizzazione dell’economia non ha contribuito a rafforzare l’autorevolezza percepita delle istituzioni democratiche…
La globalizzazione contribuisce a determinare una crisi della democrazia ed è un ulteriore elemento che indebolisce la forma partito tradizionale. Il livello a cui si prendono le decisioni economiche è sempre più spesso sovranazionale: le regole sono nazionali, l’economia no. E di conseguenza la politica elettiva ha sempre meno strumenti. L’Europa e l’Europarlamento sono un tentativo di creare uno spazio democratico e una rappresentanza sovranazionali, ma vengono a loro volta percepite come istituzioni distanti: più la politica si avvicina al potere e più viene sentita come lontana dal vissuto delle persone.
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