In Brasile è in atto un “golpe bianco”, denunciano Dilma Rousseff e i suoi sostenitori. Le strade di San Paolo e Rio sono invase da folle tinte di rosso o di verde oro, a seconda che vogliano difendere la presidente o manifestarle la loro ostilità. «L’onda della mobilitazione della sinistra, che considera il voto della Camera per l’impeachment a Dilma un golpe bianco», dice a Left Breno Altman, direttore del quotidiano Opera Mundi, «crescerà nei prossimi giorni, in forma più organizzata e centralizzata, con grandi concentramenti popolari e scioperi». Dall’altra parte, «le reazioni dell’opposizione di destra e dell’informazione (tutta contro Dilma) appaiono piuttosto guardinghe nonostante la vittoriosa battaglia alla Camera. I settori meno insensati del conservatorismo brasiliano sembrano imbarazzati dal predominio di posizioni fondamentaliste e neofasciste nel voto del 17 aprile, quando in aula si è visto anche un deputato dell’ultra destra, Jair Bolsonaro, dedicare il suo voto contro Rousseff al colonnello Carlos Brilhante Ustra, che durante la dittatura militare guidava l’unità militare che torturava i dissidenti e che torturò la stessa Dilma.
«Lei non ha rubato nulla, ma sta per essere giudicata da una banda di ladri», ha scritto di Dilma il New York Times il 15 aprile, mentre la presidente denunciava all’Onu il colpo di Stato. Ma perché parlare di golpe se l’impeachment è previsto dalla Costituzione? «Perché la legge prevede l’impeachment solo se vi è un crimine commesso, ma qui», risponde Breno Altman, «non c’è nessun reato che possa esserle attribuito». L’accusa mossa a Rousseff non ha niente a che fare con la corruzione, la presidente è accusata di aver falsificato i bilanci dello Stato allo scopo di mascherare la recessione del Paese, nel corso della campagna elettorale per la sua rielezione del 2014. «Sono pratiche purtroppo comuni a tutti i governi dal 1985 a oggi», riprende il direttore del giornale indipendente, «e persino la Corte dei conti federale ha autorizzato simili forme di maquillage contabile. A carico di Dilma Rousseff non c’è alcun procedimento penale per corruzione, mentre la stessa cosa non si può dire per per chi l’accusa: per il vicepresidente Michel Temer, per esempio, e per il presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, accusato di aver ricevuto massicce tangenti da parte di gruppi d’affari. Dei deputati che hanno votato per l’impeachment, in 28 sono imputati per corruzione. E ben 215 dei 367 parlamentari che si sono schierati contro la presidente devono rispondere di reati finanziari».
I 25 partiti presenti nel Parlamento brasiliano, spiega Altman, «sono politicamente divisi in quattro aree tra loro relativamente equilibrate, ciascuno con un sostegno approssimativo del 25% della società: la sinistra, la destra, il centro-democratico e il centro-conservatore». Ad abbandonare Dilma Rousseff e rompere l’alleanza di governo sono i parlamentari centristi. «La sinistra, contando sul 20% dei voti e il 25% della rappresentanza parlamentare, era riuscita a controllare la presidenza dal 2003, ma solo alleandosi con le forze del centro-democratico e del centro-conservatore per preservare la governabilità. Ma poi il quadro comincia a cambiare con le elezioni di ottobre 2014, quando Rousseff ha deciso di far sua, almeno in parte, l’agenda economica dell’opposizione di destra». Spiega Altman: «Riconfermata con un margine molto stretto e spaventata dal crollo degli investimenti privati, Dilma ha cercato di stabilire un ponte con i suoi avversari politici e di classe. È stato un vero disastro. Il nuovo assetto ha disorganizzato, smobilitato e diviso la sinistra, mentre consentiva alla destra di recuperare iniziativa politica, di accusare la presidente di frode elettorale, di portare in piazza folle della classe media, che gridavano contro la corruzione, confortate da settori della magistratura, pubblici ministeri e polizia federale». È in questo contesto, in cui Dilma e il Pt (il Partito dei lavoratori) diventano il capro espiatorio dell’insoddisfazione dei ceti medi, che il centro-democratico si sposta a destra e si unisce al centro-conservatore, formando un blocco che sul 70-75% del Parlamento.
Dopo la crescita impetuosa dei primi anni Duemila e le speranze suscitate dai programmi sociali di Lula, la presidente ha dovuto fare i conti con la recessione degli ultimi anni. Le scelte di austerity alla brasiliana le hanno procurato critiche anche da sinistra, critiche non prive di fondamento, analizza Altman: «Il grande errore di Rousseff è stato quello di aver risposto con una politica recessiva all’esaurimento del modello economico sostenuto dal 2003 al 2010. Un modello che aveva permesso di distribuire reddito e aumentare il tenore di vita dei più poveri senza ridurre il potere d’acquisto dei più ricchi. Dal 2011 la situazione è cominciata a cambiare e servivano scelte coraggiose per continuare con una politica di inclusione sociale: aumentare le imposte sul capitale, limitare i trasferimenti di fondi pubblici alle società private, contenere il potere degli oligopoli finanziari». Scelte difficili perché la grande impresa chiedeva, al contrario, sostegno finanziario e tagli ai salari. «La presidente ha resistito alla pressione durante il suo primo mandato, ma ha ceduto dopo la rielezione. Ed è così andata incontro a una perdita enorme di consenso nella base sociale della sinistra, ha indebolito la sua capacità di egemonia, mentre si aggravava la recessione e il Brasile perdeva posti di lavoro e di reddito».
Tuttavia, dice Altman, la presidente «non è attaccata per gli errori che ha fatto, ma perché rappresenta un ostacolo alla contro rivoluzione capitalista invocata dai grandi gruppi d’affari e dai loro portavoce politici. Le forze conservatrici non vogliono destituire Dilma, ma criminalizzare tutte le forze progressiste e dei movimenti sociali, impedendo qualsiasi alternativa di potere che possa disturbare la ricostruzione dell’egemonia borghese». Il golpe branco, per molti, non è che l’anello di una catena che si snoda lungo l’intero Continente: «Il rovesciamento di Rousseff è parte di una strategia geopolitica, il cui principale obiettivo è quello di sconfiggere il processo di cambiamento progressista in America Latina, che è iniziato con l’elezione di Hugo Chavez nel 1998. La crisi internazionale e il consolidamento dei blocchi regionali rende indispensabile al capitalismo americano ritrovare il subcontinente e subordinarlo di nuovo ai propri interessi».