Ex sindaco di Davao City è l'outsider populista della politica di un Paese retto da poche famiglie. Promette guerra alla criminalità, ma nella città che ha ripulito si è parlato di squadroni della morte. E quando fa comizi si lascia andare a commenti di ogni tipo

Rodrigo Duterte, 71 anni, avvocato e per molti anni sindaco di Davao City nell’isola di Mindanao è il nuovo presidente delle Filippine. Lo ha annunciato lui stesso, ancora prima dello spoglio definitivo dei voti: il suo inseguitore, Manuel Roxas II nipote dell’ex presidente, era sotto di 6 milioni di voti.

Camicia a quadri e pugno alzato, così si è presentato davanti alle telecamere il neo presidente che ha promesso di voler cambiare subito la Costituzione. Duterte ha vinto dopo una campagna elettorale incentrata sulla lotta alla corruzione e alla criminalità. Le Filippine crescono del 6% l’anno, creano milioni di nuovi posti di lavoro, vedono arrivare grandi investimenti esteri e migliorano dal punto di vista della quantità di entrate fiscali, ma la maggior parte della popolazione non sembra avvertire il cambiamento: in un Paese dove la politica è retta da famiglie che si passano il potere e le diseguaglianze aumentano, il politico che parla come l’uomo strada, vince. La vittoria del candidato più popolare e populista si spiega anche così.

Sindaco di Davao dal 1988, rieletto più volte negli anni successivi, Duterte è riuscito ad attirare un grande consenso nella popolazione filippina che ha partecipato in massa alle elezioni (80%). Secondo Edna Co, politologa all’università delle Filippine, come riporta Le monde, «La gente può identificarsi con il suo modo di fare, il suo linguaggio. Lui promette di cambiare le cose a suo modo, con le sue regole». In effetti, Duterte, è un personaggio pieno di contraddizioni. Il suo soprannome, non a caso è The punisher, il punitore, dopo che un articolo del Time lo aveva chiamato così nel 2002. Viene anche definito un Donald Trump orientale, per i modi spicci e le parole pesanti, ma ha definito il candidato americano «un bigotto». Non ha avuto nessuna remora a lanciare battute anche durante la visita di papa Bergoglio nelle Filippine, che avrebbe causato un inaccettabile blocco nel traffico. Famose anche le sua battute sul Viagra, sulle sue amanti e su uno stupro avvenuto proprio nella sua città. Tra le caratteristiche di Diterte, insomma, c’è anche una buona componente di sessismo.

Durante i suoi anni alla guida di Davao City  ha cambiato le condizioni di vita di una città che, quando arrivò lui, alla fine degli anni 80, era chiamata Nicaragdao, per la violenza della malavita e i traffici criminali. Oggi la terza città delle Filippine è diventata una città vivibile e meta turistica, dotata di una forte presenza delle forze dell’ordine, addirittura la nona città più sicura al mondo. Secondo organizzazioni internazionali come Human Rights Whatch, Duterte sarebbe riuscito a soffocare la violenza usando però metodi simili a quelli delle bande criminali che combatteva. «Come credete che sia riuscito? Li ho uccisi tutti», aveva ammesso lo scorso anno, salvo poi ritrattare questa dichiarazione choc che comunque dimostrerebbe il suo legame con gli “squadroni della morte” che secondo Al Jazeera tra il 1998 e il 2015 avrebbero ucciso a Davao City 1424 persone di cui 132 minorenni.

Duterte ha comunicato subito la sua vittoria che cambierà la Costituzione, per trasformare lo stato in un sistema parlamentare federale. E forse tra i provvedimenti futuri a livello nazionale potrebbero esserci le norme che ha applicato nella sua Davao City: il divieto di bere alcolici a tarda notte («Dobbiamo lavorare il giorno dopo», ha detto), il coprifuoco per i minori non accompagnati dalle 22 e il divieto di karaoke “forte” nel cuore della notte.