Sulle amministrative a tre settimane dal voto, in piena campagna elettorale, si è verificato il contrordine del governo: votiamo anche lunedì 6 giugno. Estensione anche per il ballottaggio (19 e 20 giugno) e, forse, per il referendum costituzionale
Cari italiani voterete quando e come decidiamo noi. E che importa se si spende di più. È la sintesi del balletto attorno ai prossimi appuntamenti alle urne: per le elezioni amministrative di giugno e per il referendum costituzionale di ottobre. Sulle amministrative a tre settimane dal voto, in piena campagna elettorale, si è verificato il contrordine del governo. Ricordiamo: il 30 marzo era stata decisa la data del 5 giugno, tra l’altro in una esilarante conferenza stampa del ministro Alfano il quale, dopo aver sbagliato a indicare il giorno della settimana a proposito del 2 giugno (aveva detto che era mercoledì) aveva dimostrato che cinque notti fuori gli italiani proprio non se le potevano permettere, «il ponte insomma era una roba da ricchi» e quindi nessun problema nel decidere la data del 5 giugno. Adesso, invece, si cambia: votiamo anche lunedì 6 giugno, e oggi un decreto del governo dovrebbe uscire dal Consiglio dei ministri. Cancellato così d’un colpo l’election day introdotto dal presidente del consiglio Letta il quale oggi si chiede il motivo di questa scelta visto che il prolungamento costa. La sua decisione, in tempi di Spending review aveva fatto risparmiare 100 milioni (questa la spesa per il doppio giorno).
Ma Alfano ha fatto sapere anche che l’estensione al secondo giorno, prevista anche per il ballottaggio (19 e 20 giugno), forse verrà estesa anche all’appuntamento dell’anno, anzi a quell’evento storico che cambierà la Costituzione: il referendum che dovrà approvare o meno la riforma Boschi sul nuovo assetto dello Stato, dal nuovo Senato al ridimensionamento delle autonomie locali eliminando le competenze delle regioni sulle “materie concorrenti”. Dietro a questa “generosità” del doppio giorno di voto – che rappresenta un’anomalìa in Europa – è evidente il timore dell’astensionismo. Anche se, dicono i sondaggisti come Roberto Weber oggi su Repubblica, «non serve prolungare, la quota motivata è sempre quella: attorno al 50%». Pesa come un macigno infatti il ricordo del crollo alle amministrative del 2014 in Emilia Romagna dove votò solo il 37,7% degli elettori. Visto poi che il presidente del Consiglio ha trasformato il referendum di ottobre in un plebiscito nei confronti del suo governo (dicendo che se perde se ne va), è probabile che gli oppositori del no si rafforzino e che il voto vada al di là del contenuto stesso del referendum. A radicalizzare gli schieramenti ci aveva pensato anche il ministro Boschi che aveva paragonato quelli del no a Casa Pound. Ma così è inevitabile uno scontro diretto che è politico. A considerare «una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese» è anche Alfredo Reichlin, storico personaggio della sinistra, il quale mette in guardia dal dividere l’Italia in due blocchi contrapposti: «Da una parte quelli del Sì, cioè chi vuole bene all’Italia e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono succeduti prima di questo, dall’altro il partito del No dei conservatori, dei professori, dei gufi, dei nemici. Questo tipo di atteggiamento – secondo Reichlin – prepara catastrofi e rende più difficile la governabilità del Paese».
Il 2016 era iniziato con la polemica sul referendum trivelle: allora Renzi aveva lanciato «l’astensione legittima». Adesso invece, è un invito pressante di andare al voto. Come se gli elettori avessero sempre più bisogno di qualcuno che dall’alto decide per loro.