In Kentucky e Oregon è finita uno a uno, Hillary Clinton avanti di una manciata di voti nel primo Stato e Bernie Sanders meglio (54% a 46%) nel secondo, tendenzialmente più di sinistra. Ma siccome i delegati si distribuiscono in maniera proporzionale, il risultato non cambia la dinamica della corsa: i due candidati alla nomination democratica guadagnano un numero simile di voti alla convention e la distanza tra loro rimane inalterata. Contando i superdelegati, ovvero gli eletti, in gran maggioranza con lei, a Hillary ne mancano meno di cento per ottenere la nomination. Non contando quelli, l’ex first lady è comunque avanti di circa 300.
I veri problemi per lei e per Sanders non arrivano dagli Stati dove si è votato ma dal Nevada, dove lo scorso weekend si teneva la convention statale dei democratici. Bene, qui alcuni delegati di Bernie Sanders sono stati respinti perché non registrati come elettori del partito. Ogni Stato ha un suo processo di invio dei delegati alla convention nazionale, in alcuni casi si può non essere registrati, in altri invece è obligatorio. In Nevada è obbligatorio. La campagna Sanders ha cercato di far cambiare le regole con un voto. E ha perso, pur contestandone il risultato. L’effetto è stato il caos in sala, urla, proteste, litigi.
La verità è che dal punto di vista formale hanno ragione quelli del partito: le regole non si cambiano in corsa. L’altra verità è che in Nevada molti che hanno votato per Bernie non saranno rappresentati alla convention a causa delle regole. Un classico della vita di partito contemporanea: un candidato nuovo e diverso raccoglie consensi oltre i confini degli iscritti – in Usa essere registrati non è la stessa cosa, è di meno, ma ci siamo capiti – me le regole statutarie lo danneggiano. E la sua base non capisce e si infuria. La base di Bernie, poi, è giovane e radicale, più pronta alla protesta e a dare giudizi definitivi sulla vita di partito. Qualcuno anche qualcosa in più: i supporters di Bernie hanno diffuso alcuni numeri di telefono delle persone che presiedevano la convention del Nevada, che hanno ricevuto centinaia di sms e messaggi vocali di insulti e minacce. È un tema grosso e delicato.
Il problema per i democratici è che se una cosa così succedesse alla convention, il partito che è in netto vantaggio – si trova come avversari dei repubblicani che voteranno un candidato che non è dei loro come Trump – rischia di finire diviso come il Grand Old Party. E qui entrano in gioco proprio Bernie Sanders, Hillary Clinton e le figure importanti del partito. Specie quelle di sinistra.
Sanders e Clinton dovrebbero avere la capacità di parlarsi e trovare una via di uscita: il primo dovrebbe ammettere la sconfitta e la seconda promettere alcune cose e fare in modo che la convention sia anche una celebrazione di Bernie, della sua campagna e delle idee che porta avanti. Per adesso non va così: il comunicato di Sanders suona un po’ come una minaccia. «Il partito ha davanti una scelta: aprire le sue porte a chi vuole il cambiamento economico e sociale per davvero, gente che vuole colpire Wall Street e l’industria degli idrocarburi che sta distruggendo il pianeta oppure può scegliere lo status quo, facendo conto sui grandi donatori ed essere il partito della scarsa partecipazione e privo di energia».
«Il partito ha una scelta» suona male: anche se Sanders tocca un punto cruciale – energia, partecipazione, rottura con i poteri forti – non può decidere a tre quarti della gara che il processo delle primarie è sbagliato, suona un po’ “se perdo buco il pallone”. Al contempo i suoi elettori la pensano in larga parte come lui e questa frattura, se non sanata con intelligenza e a metà strada tra le due campagne, rischia di danneggiare i democratici a novembre. Dana Milibank, columnist del Washington Post titola la sua rubrica: Sanders vuole essere il nuovo Nader? (il candidato che nel 2000 prese il 4% dei voti e assieme alla corte della Florida, privò Al Gore della presidenza).
La verità è che i temi di Sanders hanno influenzato e influenzano la campagna Clinton e molto si potrebbe ancora fare. Specie per costringere Hillary a prendere alcune posizioni nette sulle regole da metetre alla finanza. Su questo Bernie avrebbe anche alleati potenti nel partito come Elizabeth Warren. Ma adottare un linguaggio e una modalità come quella di questi giorni rischia di fare male a Clinton, al partito democratico e anche a Sanders e ai temi che gli sono cari. A meno di non pensarla come Susan Sarandon, che ha dichiarato che Trump alla Casa Bianca sarebbe un bene perché provocherebbe la rivoluzione. Meglio non fare la prova.