Con un un romanzo forte e sensibile, Lydie Salvayre riaccende la memoria della guerra civile. Nata nel 1948 da esuli spagnoli in Francia in Non piangere (Pas pleurer L’Asino d’oro edizioni, in libreria dal 20 maggio) la scrittrice denuncia l’alleanza fra Chiesa cattolica e regime franchista. Rompendo il silenzio imposto per legge dal patto per l’amnistia che per lunghi anni ha impedito in Spagna di fare piena luce sui crimini commessi dalla dittatura del generale Franco e sulle stragi di repubblicani compiute in nome di Dio, della famiglia e della patria.
Ma questo romanzo, con cui Salvayre ha vinto nel 2014 il premio Goncourt, non si “limita” a riaprire la discussione sul passato. Attraverso la storia della protagonista, una ragazza fuggita dalla guerra, guardata con sospetto perché poverissima, l’autrice francese sembra evocare in filigrana la vicenda di tanti migranti dei nostri giorni.
La giovanissima Montsé camminò per quasi un mese, giorno e notte, facendo un estenuante viaggio dalla Catalogna al sud della Francia, gettandosi nei fossati ogni volta che passavano aerei spagnoli, italiani e tedeschi. Intanto il suo compagno, padre di Lydie, era impegnato nelle colonne del generale comunista Lister e solo nel febbraio del 1939 riuscì a raggiungere il campo profughi Argelès-sur-Mer, nei Pirenei orientali, per poi finire nel campo di internamento di Mauzac, in Dordogne.
Una storia che sua madre le raccontava spesso da piccola in un colorito “fragnol”, un misto di francese e spagnolo di cui Lydie, che frequentava la scuola francese, un po’ si vergognava. Ora quella parlata contaminata e meticcia è diventata il punto di forza, la lingua viva che innerva Non piangere (tradotto da Lorenza Di Lella e Francesca Scala) facendone un’opera narrativa originale e icastica.
«Nella mia vita c’è sempre stato l’incontro scontro fra due lingue, tra lo spagnolo che parlavamo in casa e il francese che avevo imparato sui banchi», racconta la scrittrice che abbiamo incontrato a Roma, nel giardino dell’Ambasciata francese, in occasione di Letterature festival. «Ho amato follemente Racine, la prosa di Pascal, l’eleganza del francese classico. Ma sono anche attratta dal barocco spagnolo, dalla letteratura picaresca, dalle espressioni carnali dello spagnolo popolare. La mia scrittura nasce da questa dialettica. Forse – aggiunge l’autrice di Non piangere – anche dal francese ricco di accenti sudanesi, marocchini, algerini che ho ascoltato lavorando a Bagnolet, nella periferia parigina. Una lingua non è mai pura, chiusa, limitata. Fortunatamente è un organismo vivente, aperto a tutti gli influssi stranieri».
Prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Lydie Salvayre ha lavorato come psichiatra e quella esperienza continua a nutrire in maniera sotterranea la sua scrittura, dando spessore ai personaggi e qualche volta, forse inconsciamente, orientando la scelta delle storie da raccontare. Ma, più in generale, ci sembra di poter dire, torna come esigenza di trovare il senso profondo delle cose e come urgenza di denunciare la violenza invisibile, nascosta, dietro parole formali e apparentemente cortesi. Come accadeva ne La vie commune, (Bollati Boringhieri, 2001) in cui “indagava” un rapporto difficile fra madre e figlia e provava a raccontare la pazzia che si nasconde talvolta dietro a comportamenti apparentemente normali, come possono essere quelli di una segretaria dalla vita molto ordinata. Altre volte emerge, più forte, l’esigenza di denunciare: nel caso di Ritratto di uno scrittore come animale domestico (2010), per esempio, Lydie smaschera la falsa filantropia e i deliri di un industriale del fast food che ingaggia una giornalista perché scriva la sua biografia in forma cristologica. In Non piangere, invece, a far scattare la molla del racconto è, come accennavamo, la denuncia di un crimine storico, lo sterminio di anarchici, repubblicani e comunisti messo in atto dai franchisti con la benedizione e l’aiuto della Chiesa cattolica.
«La violenza dei falangisti spagnoli era nera, perversa, basata su una ideologia disumana. Il loro motto, non a caso, era “Viva la muerte”», sottolinea la scrittrice con forza. Un aspetto che non si legge nei manuali di storia che raccontano solo i fatti. Emerge semmai dall’Omaggio alla Catalogna di George Orwell e dai brucianti reportage di Manuel Chaves Nogales sulla guerra civile spagnola (di recente riproposti da La Nuova frontiera nella raccolta A ferro e fuoco). Laico e antifascista d’impronta liberale, Nogales denunciava la crudeltà e insieme la violenta stupidità dei clerico-fascisti. Che formavano un blocco ottuso, cieco e compatto. «Anche per questo mi ha colpito molto la lettura di Grandi cimiteri sotto la luna di George Bernanos», commenta la scrittrice, spiazzandoci un po’ nell’evocare uno scrittore come lui, cattolico integralista, conservatore, nazionalista. «Bernanos è stato indubbiamente tutto ciò che lei dice», ammette Salvayre . «Ma ha avuto l’onestà intellettuale di dire la verità, di denunciare l’appoggio della Chiesa al regime. Ebbe il coraggio di dire ciò che vedeva. Anche andando contro la sua parte, anche a rischio di essere accusato di tradimento, di rimanere solo, come infatti gli accadde. Ho ritrovato per caso questo suo pamphlet scritto nel 1938, non mi ero mai avvicinata prima perché ero piena di pregiudizi. Ma leggendo quel libro sulla guerra in Spagna ho scoperto che era uno scrittore straordinario». Grazie allo sguardo spietato di Bernanos sui suoi sodali, Lydia Salvayre dice di aver potuto cogliere quanto fosse plumbea la realtà interiore dei falangisti.
Da un lato c’era il loro essere per la morte «dall’altra c’era la vitale ribellione di mia madre, il suo modo di essere solare, la sua gioia di vivere; c’erano gli ideali politici, di uguaglianza, di giustizia. C’era il suo lasciarsi andare nel rapporto con un uomo che lei sapeva che non avrebbe più rivisto. Scrivendo questo libro volevo ritrovare quella spinta all’emancipazione che aveva conosciuto durante l’ insurrezione libertaria del 1936». Nel romanzo, la storia d’amore vissuta un’estate da Montsé con un affascinante sconosciuto sembra lasciar intendere che durante la Resistenza anche nella cattolicissima Spagna i rapporti fra uomo e donna si fecero più liberi. «Fu veramente così e il ruolo delle donne fu molto importante nella lotta al regime. Certo – precisa la scrittrice – in Spagna allora prevaleva una cultura patriarcale. C’era una mentalità maschilista. Ma una donna come mia madre, che non accettava imposizioni, faceva la vita che voleva. Aveva una libertà straordinaria perché aveva il diritto di parlare, di baciare, di vivere». Ma non di scrivere? «Io stessa mi sono concessa questo diritto piuttosto tardi. Non mi sentivo autorizzata. Vengo da una famiglia povera se avessi detto che volevo fare l’artista mi avrebbero guardato con preoccupazione». Ma se Lidya Salvayre aspettò di compiere 44 anni prima di pubblicare il suo primo romanzo, (La dichiarazione, Feltrinelli, 1991) non pensa che per le donne sia più difficile trovare una propria voce originale. «Il libro che ho scritto prima di Non piangere s’intitola Sette donne ed è dedicato ad altrettante scrittrici: sette donne “folli”, in cui il termine non è sinonimo di pazzia. Da Emily Bronte a Ingeborg Bachmann fino a Djuna Barnes. Sono donne che hanno messo a soqquadro il mondo per poter scrivere. Fra tutte forse Marina Cvetaeva era la più estrema, diceva che scrivere era vivere, o meglio, per lei era «vivrécrire».