Il cileno Alejandro Aravena cambia radicalmente il volto della Biennale. Meno archistar e più impegno civile. Con progetti sostenibili condivisi e un pizzico di sana follia

L’architettura ha a a che fare con la politica, intesa come dialettica, come tentativo di costruire una convivenza senza discriminazioni.  «Ha lo scopo di migliorare la qualità della vita». Ne è convinto l’architetto Alejandro Aravena direttore della Biennale di architettura 2016, che si apre ufficialmente a Venezia il 28 maggio, mentre i vernissage per gli addetti ai lavori sono già cominciati.

Una Biennale in cui si parla molto di vecchie e nuove periferie e dei modi per trasformare il fermento e il malcontento che le caratterizzano in forza positiva, per curare il degrado ed uscire dall’isolamento . In laguna si parla molto delle frontiere e dei confini come tracce desuete di un passato novecentesco legato allo Stato nazione . A Venezia si parla molto anche di accoglienza dei migranti, di cohousing, di architettura sostenibile e di interventi in zone di guerra e di crisi. La ventata di rinnovamento che ha partato Aravena in Laguna, ha l’aria di una vera e propria rivoluzione. Via le archistar e spazio a progetti creativi, funzionali e a basso costo. La sua mostra Reporting from the front guarda molto agli autori giovani, impegnati, emergenti. «Il mestiere dell’architetto ha una precisa responsabilità sociale, svolge un servizio», dichiara l’architetto cileno, che al contempo rivendica un proprio stile «come personale è per ciascuno di noi la calligrafia, pur seguendo le regole ufficiali dell’ortografia e della grammatica».

Classe 1967, pur avendo ricevuto molti riconoscimenti, Aravena si differenzia nettamente dal modello di moda per tutti gli anni Ottanta e Novanta. Passione civile e concretezza connotano il suo lavoro basato su architettura rigorosa, essenziale, quasi austera. Perché sono le caratteristiche che permettono agli edifici di affrontare la sfida del tempo, senza diventare obsoleti, come capita alle costruzioni che guardano soprattutto al glamour.

Queste solide convinzioni in lui si mescolano a un pizzico di follia latina nel fare finestre sghembe e linee curve, in mezzo a un susseguirsi di linee parallele (nelle sue Torri siamesi, per esempio). Un mix di pragmatismo e inventiva si ritrova anche nel suo progetto di architettura sociale più noto: la costruzione di cento case per famiglie povere a Iquique, nel nord del Cile. Invece di fare appartamenti da 40 mq, come prevedeva il budget pubblico, costruì lo scheletro di case ampie il doppio, completandone solo una parte, autosufficiente e gradevole, facendo in modo che gli abitanti potessero completare il progetto negli anni a venire.

Sulla stessa si linea si muove il Padiglione Italia curato da Tam associati,  il team di architetti che ha realizzato ospediali  per Emergency, con gli stessi standard di ospedali europei, in zone di guerra.  Nella loro mostra Taking care, ( suddiva in tre sezioni: Agire, Incontrare e Pensare), oltre a progetti di qualità, funzionali, che contengono i costi, c’è spazio anche per altri linguaggi artistici, come la street art e il graphic novel. È questo linguaggio per immagini, infatti, ad aiutare nella presentazione dei progetti nel catalogo edito da Becco giallo che accompagna l’esposizione, la casa editrice specializzata con cui già in passato Tam associati aveva pubblicato libri di divulgazione sull’architettura e sull’importanza dell’urbanistica, come rispetto del territorio e disegno della città.

Interviste e approfondimenti sulla Biennale su Left 22 in edicola dal 28 maggio

 

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