I cantieri cinesi, i cammelli e gli equilibri delicati della zona di confine tra i due Paesi africani. Reportage dalla zona di Garissa, teatro di una strage di studenti per opera di al Shabaab nel 2015 che tutti i testimoni vogliono raccontare

A Dujis: cento chilometri a nord ovest da Garissa, strada pessima, circa due ore e mezzo per arrivare. Tre cantieri stradali cinesi in mezzo al nulla: cammelli, capre, qualche vacca ma anche giraffe, dik dik, antilopi e appunto cinesi, col berretto a falde larghe e tendine laterali, treppiede e misuratori, con scorta armata. Nelle loro mani il futuro infrastrutturale del nord est del Kenya. Anche chi, come noi, è qui per filmare, deve viaggiare sotto scorta: 4 militari, giusto quelli che entravano in una seconda macchina. Cifra tonda: 5000 scellini. Mille al capo rimasto in caserma e il resto agli altri. E così si fa giornata.
Dujis, fino a qualche giorno fa, 4000 abitanti, oggi 40. Gli altri sono scappati tutti. Non è stata Al Shabaab a far scappare tutti questa volta, ma un clan rivale, per questioni di acqua e altro in sospeso da sempre. Il risultato è impressionante, tutte le case in muratura bruciate e quelle di fango rase al suolo. Cenere ovunque e in mezzo suppellettili, piatti di alluminio, brocche, una bilancia, una macchina per cucire. Una fuga precipitosa. Bashey, che ci accompagna, dice che c’era un ottimo ristorante a Dujis. Nello spaccio semidistrutto gli asini mangiano il riso sparso per terra tra le scansie per la mercanzia. Secuola e centro sanitario sono intatti ma chiusi e saccheggiati. Rimangono solo le reti dei letti a castello del dormitorio degli studenti qualche quaderno abbandonato in fretta. Una postazione dell’esercito con due mezzi blindati. Militari sparpagliati per il paese e qualche abitante che ancora raccoglie le ultime cose e si allontana tra i cespugli col fagotto. Di qui a poco si aspettano ritorsioni. Al Shabaab strumentalizza gli scontri interclanici per reclutare giovani vendicativi.

Il giorno dopo a Fafi, verso il confine con la Somalia. La strada di terra è meno rovinata della prima, dev’essere passata una ruspa dopo la stagione delle piogge. Quattro case e una moschea nel nulla a 40 gradi. Qui Al Shabaab ha colpito due volte, l’ultima delle quali uccidendo un soldato e facendo esplodere la residenza della pattuglia. Risultato: gli insegnanti della scuola locale (tranne uno) e il personale sanitario, tutti scappati a gambe levate. Molti studenti non sono tornati a scuola. È rimasto solo il maestro di Eldoret a stipendio di una Ong keniota. Si chiama Eliud Ktoo ed è un eroe. Oo qualcuno che davvero non ha alternative. Al presidio medico un giovane del posto cerca di darsi da fare con le conoscenze che ha acquisito come assistente del personale sanitario prima che scappasse. Naturalmente niente medicine. Niente vaccini da un anno. Completamente abbandonati e alla mercé delle milizie. Incazzati, forse più col governo che con i terroristi. In pericoloso allineamento con la strategia di Al Shabaab.
Eppure Farah Alì mi guarda sorridente con l’occhio opaco dalla cataratta e dice, in perfetto inglese, che la comunità è unita e i miliziani non l’avranno vinta. In nessun modo acconsentiranno a un reclutamento. Con loro, dice, non ci sediamo, e non si dialoga.
I miliziani sono arrivati in 30 nel tardo pomeriggio. Volevano bruciare anche il centro sanitario ma gli uomini sono usciti dalla moschea e hanno cominciato a urlargli contro. Naturalmente gli studenti del convitto, gli insegnanti e il personale medico se ne sono andati il giorno dopo.
Il vecchio mi chiede cosa vogliamo come “ricompensa” nel caso il filmato produca dei benefici al villaggio. Gli rispondo in maniera politicamente corretta, del tipo servizio pubblico, lo facciamo per la gente ecc. ecc., e dentro di me penso che quella domanda è già una ricompensa.

La strada di Garissa

La strada che attraversa Garissa collega Nairobi al porto somalo di Kisimayo. Lasciato alle spalle il caos della capitale del Kenya, la strada è tutta una frenesia di attività kikuyu, da Thika in poi, dagli inumani latifondi a caffè e ananas, alle torrette di avvistamento per ladri di frutta, all’agave e al banano; il monte Kilimambogo che annuncia la fine della regione centrale. Si comincia a scendere: la silenziosa terra dei Kamba, l’arancione dei grandi massi levigati, le colline e il baobab. E ancora più giù, fino ai 40 gradi del grande Nord Est, una regione circa metà dell’Italia che nasconde un milione e mezzo di pastori nomadi. A Garissa, la capitale del regno, si arriva attraversando il ponte sul fiume Tana: ci si lascia alle spalle il Kenya e si entra in Somalia, anche se nominalmente il confine è a 140 chilometri più a nord – confine da squadra, in stile congresso di Berlino – mentre è il fiume Tana a dividere da sempre gli africani bantu cristiani dai somali nilotici musulmani. Più avanti, verso il confine, l’enorme campo profughi di Daadab, 500 mila persone senza identità né prospettiva.
È domenica, a Garissa. I cristiani col vestito da festa in due sulle motorette, e molto colore, gli arancioni, i rossi e i blu degli hijab creano un elegante movimento in mezzo alla polvere. Ma anche scuri niqab, e burqa, a testimoniare il cambiamento delle tradizioni.


A Garissa si arriva attraversando il ponte sul fiume Tana: ci si lascia alle spalle il Kenya e si entra in Somalia, il confine è a 140 chilometri più a nord ma è il fiume a dividere da sempre gli africani bantu cristiani dai somali nilotici musulmani. Più avanti l’enorme campo profughi di Daadab, 500 mila persone senza identità né prospettiva


 

 

Negli anni della guerra civile in Somalia, e oltre, dopo la fuga degli americani e più in generale dell’Occidente, l’essenziale alla popolazione è stato – ed è – garantito dall’assistenzialismo religioso. Maggiore l’impegno delle organizzazioni religiose musulmane, maggiore e più rigida la loro influenza sui costumi. Come le epidemie che scoppiano in Somalia e il giorno dopo arrivano a Garissa, così, anche se più lentamente, arrivano le nuove regole. Si sfuma al nero, virano i colori. Il confine è nominale, di fatto divide ma non separa clan e famiglie. Un confine poroso, come lo definisce Ahmed Daud, capo progetto di Amref per il Nord Est, che rende difficile all’organizzazione riuscire a inseguire e a garantire il minimo di assistenza sanitaria ai suoi nomadici assistiti. Soprattutto dopo che, a seguito degli attentati, hanno dovuto evacuare quasi il 70% del proprio personale medico. Ossia i cristiani.

La strage del 2015

Il2 aprile del 2015 quattro appartenenti ad Al Shabaab entrano nell’università di Garissa, prendono 700 studenti in ostaggio e, poi, fanno una strage: 148 morti e 79 feriti. Dopo una giornata di assedio, i quattro verranno uccisi – uno si farà saltare in aria. Un anno dopo la commemorazione della strage. La lapide fa il suo effetto; a parte il macabro dorato dell’arte funeraria, la lista dei nomi restituisce parte dell’orrore. L’ultimo, il 148esimo ha solo un nome (o un cognome), ed è stato aggiunto dopo. Lo si capisce dal diverso font con cui è scritto e l’incertezza nel seguire una linea retta. Scritto a mano, si direbbe: “148 – Masinde”. Una vaghezza e un mistero molto africano. Viene voglia di indagare la sua storia.
Leggo i nomi sulla lapide come mi capita spesso con i monumenti ai caduti dei nostri paesi. L’analogia è piuttosto impressionante perché la lista è lunga come può esserla quella di un nostro centro urbano. La maggior parte ragazze. Il Daily Nation lancia già i suoi articoli on line in cui parla di centinaia di partecipanti alla maratona e di mille persone venute da tutto il Kenya. Al massimo correvano in cento e che in tutto eravamo in 500, in maggioranza di etnia somala. Ma tant’è, bisogna dare un messaggio alla città e alla nazione, il paese è unito, solidale, non abbiamo paura, e così via. Era molto bello veder correre le ragazze in ciabatte sorridenti con l’hijab svolazzante.
Poi i discorsi e i convenevoli di alcuni politici locali e quello commosso del rettore dell’università: “Buio a mezzogiorno”, cita, ricordando quella mattina, i suoi studenti e le sue studentesse. Lui, Ahmed Osman, aveva scritto sei lettere per raccomandare alle istituzioni la presenza di una postazione militare nel campus, l’ultima scritta una settimana prima dell’attacco. Poi parlano preti e imam. Decisamente più convincenti i secondi, discorsi a braccio, molto comunicativi e sentiti rispetto ai primi, letti da magrissimi sacerdoti che scambiavano l’ordine dei fogli. Nessuna testimonianza di studenti sopravvissuti ma quella di un militare che descrive nel dettaglio il lavoro micidiale del cecchino appostato sul tetto dei dormitori. Lui è riuscito a togliersi dalla linea di fuoco ma ha dovuto assistere impotente all’agonia di un ragazzo inerme esposto al tiro.


Alla fine delle celebrazioni della strage un tappeto di bottiglie di plastica vuote che si sciolgono al sole; un cameraman mezzo svenuto, soldati appisolati qua e là. Quelli impeccabili dell’esercito regolare e le reclute della polizia, sbottonate, con la camicia fuori dai pantaloni di colore diverso da quello delle braghe, il fucile usato per sostenersi nella calura


 

Alla fine dei giochi, un tappeto di bottiglie di plastica vuote che si sciolgono sotto un sole impossibile; un cameraman mezzo svenuto, soldati appisolati qua e là. Quelli impeccabili dell’esercito regolare, con elmetto e giubbotto antiproiettile, e le reclute della polizia amministrativa, sbottonati, con la camicia fuori dai pantaloni e di un colore leggermente diverso da quello delle braghe, come spaiata, il fucile usato per sostenersi nella calura. E soprattutto l’infaticabile “big man” Hassan Sheik Ali, primo rettore e cofondatore dell’università. Magro, in bianco, profumatissimo, che mi scruta attraverso un paio di occhiali bifocali. Le sopracciglia tinte con l’henné si riflettono sulle lenti. Sbobinare la sua intervista è scrivere un trattato sulla politica del governo centrale in questa zona dimenticata del Paese. Volutamente dimenticata. Che ricorda qualcosa di noi.

La moschea, il luogo sicuro in città

All’una abbiamo finito, giusto in tempo per i ragazzi di andare in moschea, dove andiamo pure noi, e dove mi trovo improvvisamente circondato dai fedeli con l’imam che mi punta, ha fretta di dire qualcosa, che i musulmani di Garissa hanno donato il sangue per salvare i superstiti degli attacchi e che la loro comunità non può vivere senza i cristiani, gli uni sono parte della vita degli altri. Certo è che, al momento, almeno fino a quando Al Shabaab non abbraccerà l’ideologia dell’ISIS – e non comincerà ad ammazzare altri musulmani – ho l’inevitabile e scomoda sensazione che il cortile della moschea sia l’unico posto sicuro della zona, e infatti i suoi cancelli sono aperti alla strada, e non ci sono guardie armate di fronte all’ingresso. Il custode della moschea ha una frusta in mano ma serve solo per cacciare i questuanti troppo insistenti. Anche lui vuole parlarmi ma è difficile capire quello che dice perché ha perso troppi denti, e per di più in maniera asimmetrica: sembra lamentarsi del fatto che i militari kenyoti picchiano i somali e ne violentano le donne. Viene subito in mente il modo – un misto di autoritarismo e arrapamento- con cui il laido caporale di stanza a Dujis guardava insistentemente Dinah, la giovane contrattista dell’ufficio di comunicazione di Amref che ci sta aiutando in questo viaggio. Il caporale fa parte di un esercito di occupazione, con tutto lo schifo che ne deriva.

Al contrario, cancelli chiusi e militari vigili davanti alla cattedrale di Garissa e all’African Inland Church, dove il primo luglio del 2012 i miliziani hanno ucciso due militari, quattro uomini, nove donne e due bambini. Il Kenya è un paese in guerra, lo capisci facilmente dalla lista degli attacchi di Al Shabaab riportata da Wikipedia. Quasi 900 morti in quattro anni. Senza contare le vittime indirette di uno stato di guerra: i sospetti, le vendette personali, gli scomodi…

La sera disobbediamo alle raccomandazioni del responsabile della sicurezza e ceniamo fuori dall’albergo. Niente di eccessivo, attraversiamo la strada ed entriamo nello spaccio della polizia: carne arrosto e birra. Solitamente posti molto squallidi: prostitute e poliziotti ubriachi, musica troppo forte e attese inverosimili per mangiare. Ma qui siamo a Garissa, guardie armate e sobrie all’ingresso, motivi lingala di sottofondo e un ampio spazio ventilato, dove persone nere discutono nell’anonimato del buio. Respiriamo un attimo, parlando poco e guardando distratti un lontano schermo televisivo. E davanti a noi si materializza un prete, il reverendo che dava messa la mattina nella cattedrale, anche lui vuole parlare, e allora ricomincia la descrizione dell’orrore. I primi spari prima dell’alba, e poi sempre peggio fino alle sei di sera, con i suoi giovani fedeli che gli mandavano su whatsapp l’invito a pregare per le loro anime. Qualche messaggio ancora alle undici, l’ultimo verso l’una. Poi silenzio. Sulla strada principale la corsa disperata dei fuggitivi, coperti di sangue, altri mezzi nudi. Mi chiedo come mai anche lui qui, non sembra un posto adatto a un prelato. Mi rispondo subito: anche lui forse viene a prendere un “po’ d’aria”, prima di tornarsene in canonica, dove ogni rumore sottolinea il fatto che la sua vita non vale niente. Father Nicholas non ha più un coro, quasi tutte le ragazze che cantavano erano studentesse dell’università di Garissa. Quelle che non sono morte, sono scappate.