L’ultradestra austriaca contesta il risultato delle ultime elezioni presidenziali, vinte con un margine molto ridotto dal verde Alexander Van der Bellen. Il candidato ecologista ha sconfitto lo sfidante Norbert Hofer del Partito delle libertà austriaco (Fpoe) con un margine molto ristretto di consensi: 50,35% contro 49,65%, pari circa a 31mila voti. Secondo quando annunciato dal portavoce della Corte costituzionale, il leader dell’Fpoe, Heinz Christian-Strache, ha depositato un ricorso per avviare una contestazione formale dei risultati del voto nell’ultimo giorno possibile. Già nei giorni successivi al voto Strache aveva contestato su facebook l’esito delle votazioni per «presunte irregolarità», nonostante Hofer avesse subito ammesso la sconfitta. Nell’occhio del ciclone vi sono quegli 800mila voti per corrispondenza decisivi per l’elezione di Van der Bellen. Il primo turno aveva visto il trionfo del candidato nazionalista con oltre il 35% dei consensi, mentre il verde Van der Bellen era arrivato secondo con il 21% delle preferenze. Completamente esclusi dalla competizione i partiti tradizionali, popolari e socialdemocratici.
L’evento è stato seguito con molta attenzione in tutta Europa: grande era la preoccupazione che, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, un partito di estrema destra arrivasse a occupare la più alta carica di uno Stato europeo. Soprattutto l’Italia sarebbe stata investita dalla vittoria dell’Fpoe, che avrebbe ulteriormente aggravato le tensioni tra i due paesi al confine del Brennero («Il muro al Brennero è inevitabile» fu uno degli slogan di Hofer durante la campagna elettorale).
Il pericolo è stato di poco sventato ma l’estrema destra europea non sembra voler mollare la presa sul continente. Soprattutto facendo leva sui sentimenti xenofobi e strumentalizzando la questione dell’accoglienza ai migranti. E con la crisi dei partiti tradizionali ed un’Unione europea sempre più assente, il ritorno ad un continente frammentato e in preda ai nazionalismi, simile a quello degli anni 30, non è più così impossibile.
Innanzitutto c’è la Brexit. Il prossimo 23 giugno i cittadini del Regno Unito saranno chiamati a esprimersi sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea. Inizialmente i sondaggi davano il fronte del «No» in netto vantaggio rispetto a quello del «Si», ma secondo le ultime rilevazioni la distanza tra i due schieramenti si sarebbe accorciata di molto. Anzi, secondo due recenti sondaggi del Guardian i pro-Brexit sarebbero pin vantaggio con il 52% contro il 48%, capovolgendo la situazione di sole due settimane prima. Favorevoli a rimanere nell’Unione sono i partiti della sinistra (Labour, indipendentisti scozzesi e liberali), mentre il Partito Conservatore è frammentato e diviso al suo interno – il premier David Cameron ha definito l’uscita dall’Ue una «bomba economica», ma non mancano voci favorevoli al leave, tra cui spicca l’ex sindaco di Londra Boris Johnson. Tra i partiti euroscettici spiccano l’ultra liberista Partito Indipendentista del Regno Unito (Ukip) di Nigel Farage (26,8% alle ultime elezioni europee) e altre piccole formazioni della destra radicale. L’uscita dall’Ue del Regno Unito sarebbe, secondo alcuni commentatori, una bomba a orologeria per il settore finanziario inglese e per la sterlina. E penalizzerebbe l’economia europea e quella globale. Ma sopratutto costituirebbe un pericoloso precedente e potrebbe causare un effetto domino che porterebbe alla dissoluzione dell’unione Europea.
Francia. Nel giugno del 2017 si terranno le elezioni in Francia, un paese impaurito dal terrorismo islamico, guidato da un Presidente della Repubblica – il socialista Francoise Hollande – tra i più impopolari della storia. Nelle elezioni regionali dello scorso inverno la formazione populista di Marine Le Pen, il Front national, ha conquistato al primo turno oltre il 27% dei consensi, arrivando a superare il 40% in due delle 13 regioni in cui si è votato (Nord-Passo di Calais-Piccardia, dove si è candidata la stessa le Pen, e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, in cui la giovane nipote Marion era aspirante Presidente). Solo un «patto di convergenza» tra repubblicani e socialisti ha scongiurato il pericolo, facendo il modo che il Front national non ottenesse nessuna regione. Secondo un recente sondaggio di Le Monde la votazione avvenisse in questa settimana, la Le Pen otterrebbe il 28% delle preferenze contro il 14% di Hollande, arrivando a doppiarlo. Rimane l’incognita sulle mosse del centrodestra gollista e sul suo candidato, ma molto probabilmente si ripeterà lo schema delle Presidenziali del 2002, in cui l’ultra destra di Jean Marie Le Pen sfidò al ballottaggio il centrodestra di Jaques Chirac.
Germania. In Germania la Grosse-koalition (un patto di governo tra cristiano democratici e socialdemocratici) ha governato saldamente il paese negli ultimi anni. Alle scorse elezioni regionali di marzo la Cdu della cancelliera Angela Merkel ha perso molti voti pagando la politica di accoglienza verso i profughi siriani. Voti che molto probabilmente hanno rafforzato il partito islamofobo Alternative fur Deutchland (Afd) di Frauke Petry, nato da una scissione della stessa Cdu inizialmente come formazione euroscettica. L’Afd ha ottenuto il 15% dei consensi ed è riuscita a eleggere rappresentanti in tutti e tre i lander in cui si sono tenuti le elezioni, Baden Wurttemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt (in cui ha ottenuto il 24% dei voti). Un recente sondaggio Insa ha inoltre rivelato che la Grosse Koalition alle prossime elezioni non supererebbe il 50% dei consensi.
Senza trascurare Polonia e Ungheria. Nei due ex Paesi socialisti sono al potere due formazioni populiste, xenofobe e fortemente anti-europeiste. In Polonia il Partito Diritto e Giustizia (Pis) del «gemello superstite» Jaroslav Kaczynski al governo ha recentemente licenziato una legge che limita i poteri della corte costituzionale, aumentando i poteri dei giudici vicino al governo. Senza contare la costante censura verso i mezzi di informazione. In Ungheria invece il premier Viktor Orbàn, del partito di destra Fidesz, che controlla la maggioranza assoluta del Parlamento, sta portando avanti le stesse politiche del Pis in Polonia, e ha parlato della «volontà di costruire uno stato volutamente illiberale». Un’asse, quello tra Polonia e Ungheria, che si manifesta per respingere i piani di spartizione dei profughi dell’Unione europea. E che, molto probabilmente, potrebbe essere destinato ad ingrandirsi.