Dopo gli attentati di Tel Aviv, il governo israeliano usa il pugno di ferro. Il commento dello scrittore Edgar Keret

Il governo israeliano ha sospeso i permessi d’ingresso a 83mila palestinesi per il Ramadan, dopo l’attentato che ha colpito ieri sera Tel Aviv, nel quale sono morte quattro persone, compreso uno degli attentatori. «Tutti i permessi per il Ramadan, specialmente quelli per le visite di famiglia dalla Giudea e Samaria in Israele, sono congelati», annuncia il Cogat, l’unità che gestisce gli affari civili nella Cisgiordania occupata. Il provvedimento colpisce 83mila palestinesi e 200 residenti di Gaza che avrebbero in questo modo visitare i parenti in occasione del Ramadan. Il Goverrno ha anche annunciato che Tel Aviv dispiegherà altri due battaglioni in Cisgiordania.

All’attentato, avvenuto nel mercato di Sarona, e compiuto da due palestinesi ventenni (secondo la polizia, originari di Atta, un villaggio nei pressi di Hebron, in Cisgiordania) diventa così occasione per il governo di Netanyahu per una risposta che colpisce indistamente i civili plaestinesi.
Intanto i feriti salgono a nove e la polizia presidia in forza tutta la zona, molto frequentata, del mercato che si trova melle vicinanze del ministero della difesa e molte strade sono state chiuse.

Di questo clima di coprifuoco e di permanente allerta che vivono gli abitanti di Tel Aviv ha parlato lo scrittore Egdar Keret a Firenze ospite del festival degli scrittori Premio von Rezzori, esprimendo preoccupazione, ma anche un netto rifiuto delle risposte di governo che criminalizzano l’intero popolo palestinese.

Dopo l’attentato a Tel Aviv nel gennaio scorso, ricorda lo scrittore «c’è stata una polemica feroce. In tv, in uno dei talk show più seguiti, qualcuno disse che se l’attacco si fosse svolto a Gerusalemme i cittadini avrebbero fermato il killer. Secondo i conservatori gli abitanti di Tel Aviv sarebbero molli, perché di sinistra e pacifisti».

Sulla vita quotidiana a Tel Aviv con un figlio piccolo, Keret ha scritto la raccolta di racconti Sette anni di felicità (Feltrinelli). «Se un razzo ci può cascare in testa in qualsiasi momento che senso ha mettersi a lavare i piatti?» è la domanda, dolorosa e feroce, che si fa il narratore nel libro, che non accetta di rispondere alla violenza con la violenza. «Sono cresciuto in una società più solidale di quella in cui sta crescendo mio figlio. C’era già l’ombra del terrorismo, ma anche un desiderio condiviso di democrazia e diritti. Oggi manca quel senso di fratellanza», ha detto lo scrittore che nella sua lectio magistralis a Firenze ha rievocato le storie che gli raccontavano i suoi genitori, scampati l’Olocausto, parlando poi dell’importanza che la narrazione ha avuto nella sua vita. «La passione per le storie e la narrazione mi ha anche salvato dal servizio obbligatorio militare», ammette l’autore de La notte in cui morirono gli autobus e di Pizzeria Kamikaze, entrambi pubblicati  dalle Edizioni e/o.  Oggi, dice Keret, «mi colpiscono certe parole del governo nei confronti degli arabi-israeliani. Non ricordo simile durezza sugli ebrei ultra-ortodossi dopo il rogo della casa dei palestinesi. Addirittura c’è chi è arrivato a sostenere che un ebreo non può mai essere definito terrorista, a differenza degli arabi. In Israele ormai c’è una spaccatura profonda tra chi sostiene che la pace possa arrivare dalla soluzione dei due Stati e chi si oppone esasperando il fondamentalismo religioso anche a dispetto della democrazia». E l’attentato dell’8 giugno non fa che rendere ancora più esplosiva questa situazione.