Nel libro Ms Kalashinikov (Chiarelettere) la fotografa Francesca Tosarelli indaga un lato poco conosciuto della guerra, quello che vede impegnate in prima linea donne guerrigliere, in varie parti del mondo. In questo volume scritto con Wu Ming 5 racconta in presa diretta, con linguaggio veloce, quasi cinematografico, i suoi incontri con donne che hanno imbracciato il fucile per difendere se stesse e il Paese dove vivono. Scopriamo così che esiste un battaglione tutto al femminile per la liberazione della Siria e che in Congo sono sul campo M23 e Mai Mai Shetani, due gruppi ribelli del Kivu Congo. Sono donne con storie molto diverse fra loro, ma le loro vicende per quanto si svolgano a centinaia di chilometri di distanza, al fondo rivelano alcuni aspetti simili.
Francesca Tosarelli, cosa accomuna queste guerrigliere al fondo?
Sono tutte donne che nascono o crescono in luoghi dove si stanno combattendo guerre legate alle risorse e provengono da un contesto sociale e culturale storicamente patriarcale. Come la maggior parte degli esseri umani avrebbero altri sogni nella vita, ma l’opzione di entrare in un gruppo armato è una tra le poche che hanno per resistere, per non essere (solamente) vittime e per prendere in mano la propria vita. Hanno background, formazioni, ideologie differenti ma ognuna di loro riveste un ruolo in qualche modo di rottura e rivoluzionario. Tutto questo lo ricavo dall’aver lavorato a lungo in Congo con diversi gruppi ribelli. Mentre per quello che riguarda altre milizie – come lo Ypj in Siria o il Kia in Myanmar – per ora è stato un lavoro di studio e ricerca. Grazie a lavori di antropologia, ho scoperto analogie con donne in movimenti di resistenza di altri periodi storici.
La politicizzazione, la lotta contro l’oppressione, sono per queste donne strumento di riscatto anche personale, nonostante il fatto di dover imbracciare le armi?
In alcuni conflitti, contemporanei e non, la mancanza di autorità, la transitorietà dei soggetti al potere, il terremoto nelle esistenze delle vite delle persone crea paradossalmente una possibilità di esplorare differenti modi di essere. Così, in un contesto storicamente patriarcale, per motivi spesso di natura logistica e di necessità, anche le donne sono ‘ammesse’ al fronte. Affrontano un’esperienza che cambierà la loro identità in maniera radicale: sperimentano – nell’estremo del conflitto – direttamente attraverso i loro corpi. La complessità delle loro azioni condiziona, cambia i rapporti con gli uomini e con la collettività. Durante il periodo della guerriglia si assiste, a mio avviso, ad un esperimento che accade in itinere: donne e uomini che erano dentro un contesto non paritario si trovano improvvisamente di fronte a un terremoto di ruoli che mette in discussione pratiche di oppressione millenarie. Questo non significa che automaticamente alla fine del conflitto le condizioni di queste donne miglioreranno e il patriarcato sarà sradicato. I cambiamenti culturali, se avvengono, impiegano generazioni, se non centinaia d’anni. Le esperienze di queste donne però condizionano le loro comunità, il rapporto con gli uomini e la percezione di sé. A seconda di quanto si prolunga la guerriglia e di quanto si accompagna ad un percorso di maturazione e di analisi politica, credo che essa lasci nelle generazioni a venire un portato di cambiamento. Tutto questo, se ci pensiamo, non vale solo per alcuni movimenti di resistenza contemporanei, ma è una dinamica che ha caratterizzato anche altre epoche storiche.
Tu eri già stata in territori di conflitto, usando l’arma pacifica della fotografia e del racconto. Il fatto di aver visto da vicino la durezza della guerra ti ha permesso di avvicinarle e di guadagnarti la loro fiducia, per farti raccontare le loro storie?
Le avevo studiate sui libri ma era la prima volta che incontravo guerrigliere in carne ed ossa, non sapevo cosa aspettarmi e non avevo nemmeno troppi anni di esperienza alle spalle in zone di conflitto. Ciò che ha reso l’accesso più personale, è stato aver condiviso le mie motivazioni anche politiche, le ragioni più profonde di questa ricerca.
Qual è stato l’incontro più toccante?
È stato emozionante ascoltare il colonnello Fanette Umuraza, mia coetanea con laurea in Scienze politiche, braccio destro del leader militare Sultani Makenga, che mi parlava del suo ruolo rivoluzionario, lì, in mezzo alla giungla del Kivu. Così come lo è stato l’incontro con Marimakele, adolescente che aveva perso il padre durante un attacco ribelle al suo villaggio, e sentire il suo disperato bisogno di prendersi quello che rimaneva della vita nelle proprie mani. Anche quello è stato un bagno di realtà. Devo dire anche che nella condizione di Fanette probabilmente avrei scambiato la mia macchina fotografica per un AK47. Quell’incontro è stato importante per capire che non posso giudicare la scelta della resistenza armata dalla mia comfort zone, che per altro è intrecciata direttamente con le cause dei conflitti contemporanei. E’ il nostro modello consumistico e tutto ciò che serve per mantenere il nostro stile di vita a rendere massacrante l’esistenza di milioni di persone.
Il tuo modo di fare fotografia, senza la sicurezza di una agenzia, rifiutando il sensazionalismo, ma anzi cercando di stabilire rapporti, puntando sull’ascolto, chiede un grosso investimento di tempo, di risorse. Come riesci a gestirti? Il tuo successo internazionale fa pensare che c’è ancora posto per il fotogiornalismo di qualità.
In realtà ho praticamente smesso di collaborare coi magazine internazionali sui quali pubblicavo, non c’era più spazio per la tipologia di storie e lo stile che proponevo. E appartenere a un’agenzia non è comunque una sicurezza, gli spazi per i reportage di approfondimento calano di giorno in giorno. Ciò che continua a vendere sono quasi solo le news ma in ogni caso il mainstream ha un’agenda politica rigida con la quale ho fatto sempre più fatica ad interagire: sono interessata a narrare conflitti più nascosti e con punti di vista diversi. Per me è centrale lavorare con le persone protagoniste delle storie in maniera più paritaria possibile, senza reiterare lo stereotipo neocoloniale delle povere vittime. Dici “successo”. Sì, forse lo è portare avanti ricerche di questo tipo in maniera indipendente e trovare il modo di poterle condividere con un grande pubblico. Cosa che accade a me come a tanti altri bravi colleghi. Però il paradosso è che questo “successo” non è accompagnato da un riconoscimento economico. La maggior parte di noi vive vite al limite della precarietà.
Ti esprimi e racconti attraverso le immagini. Come è stato passare alla scrittura con Wu Ming 5?
Lavorare con Wu Ming 5, Riccardo Pedrini, è stata una delle avventure più ricche che mi sia capitata. È un visionario, una persona di grande spessore intellettuale, umano, politico. Questo romanzo è anche un atto di onestà: ci mettiamo a nudo entrambi, nelle nostre riflessioni, analisi e contraddizioni. Essere compagni di un percorso ha portato durante la scrittura a farci da specchio l’un l’altro, questo si è tradotto in una profonda intimità sulla pagina. E questo colpisce e coinvolge il lettore in prima persona.
E ora abbandonerai la macchina fotografica?
No, la macchina fotografica continua ad essere mio fondamentale mezzo espressivo. Anche se Riccardo mi ha insegnato a scrivere non sono diventata una scrittrice.
Ma forse ho capito che sono capace di raccontare in maniera efficace le mie esperienze, che sono un mix tra ricerca antropologica visuale, storytelling, giornalismo, nomadismo, partecipazione. In questo processo pongo delle domande, a me stessa e al lettore, che chiamo in causa direttamente.
Il mezzo della scrittura, e in questo caso nella forma mista autobiografia/flusso di coscienza, ha radici nella tradizione ma rientra perfettamente nella costellazione di Ms Kalashnikov perché, così mi dicono, l’esperienza della lettura di quel libro è immersiva e coinvolgente. Ciò che vorrei fare è proprio questo creare esperienze che uniscono l’aspetto conoscitivo, emozionale e narrativo e possa no raggiungere un pubblico diverso, senza steccati.
IN TOUR
Francesca Tosarelli e Wu Ming 5 presentano il libro Ms Kalashnikov oggi, 13 giugno, alla Feltrinelli Libri e musica Duomo a Milano, alle ore 18,30. E il 28 giugno alla Libreria Minerva di Bologna
Le foto pubblicate in questa intervista sono di Francesca Tosarelli e fanno parte del book di Ms Kalashnikov. Maggiori info su www.mskalashnikov.com