Perché i toni della campagna pro leave o pro remain in Gran Bretagna sono così accesi? Davvero in caso di Brexit Londra pagherebbe un prezzo forte?
La Gran Bretagna sarebbe colpita seriamente nella misura in cui è la City l’anima e il motore di quel Paese. La politica dell’Inghilterra, dall’età imperiale fino ai giorni nostri, è stata caratterizzata dalla volontà di mantenere questo ruolo centrale e decisivo alla City. Se ora la Gran Bretagna uscisse dall’Europa, è probabile che i fondi di investimento, alcuni grandi operatori finanziari, cercherebbero una diversa collocazione. In questo senso si può dire che le borse abbiano votato. Contro Brexit, che appare una scelta incomprensibile in un contesto di forte globalizzazione. L’area euro e i Paesi dell’Europa continentale sono buoni clienti per la City. E poi è probabile che la vittoria della Brexit ridia attualità a una possibile uscita delle Scozia dal Regno Unito. È dunque un referendum che ne chiamerebbe un altro, da evitare. Infine i campioni del Leave, come Nigel Farage per esempio, non sono che dei reazionari imperialisti, vogliono la Grande Inghilterra, come se la Storia possa pretendere di ritornare indietro nel tempo. Perciò spaventano. Anche se è vero che nel popolo inglese l’avversione nei confronti di un’Europa a guida tedesca è molto forte. Dopotutto hanno combattuto due guerre contro la Germania.
Dunque Boris Johnson quando evoca addirittura il rischio di finire sotto l’ala di un nuovo “nazional socialismo” tedesco, coglie un sentimento diffuso. Si tratta di una sparata meno caricaturale di quanto non possa sembrare sentendola?
Il problema politico è assolutamente chiaro. Quello che sta succedendo adesso è identico, mutatis mutandis, a quello che accadde negli anni 30. Dopo la prima grande globalizzazione, quella degli anni 20, il crollo del ’29 di un sistema economico iper-liberista, esattamente come questo anche quello basato su speculazione e debiti, portò non solo al nascere di regimi autoritari ma anche all’autarchia, al nazionalismo, e quindi alla distruzione della ricchezza. Adesso si propone lo stesso scenario. In forma un po’ grottesca. Non sappiamo quale effetto la Brexit possa avere sulla zona euro. Ma se dovesse saltare l’Europa, penso che ciascuno dei singoli Paesi non conterà quasi niente, non sarà in grado di gestire la propria economia, perché intanto è cambiato il contesto.
Sono giustificati la preoccupazione tedesca, l’appello di Der Spiegel ai britannici perché boccino Brexit, la minaccia lanciata da Schauble, “se uscite non rientrerete”, i toni da ultima spiaggia?
I tedeschi temono di essere messi di nuovo all’indice, dipinti come nazional socialisti, temono di trovarsi senza l’Europa che era stata per loro un approdo comodo e conveniente. Si sta riproducendo lo scenario degli anni 30. Solo che questa volta la frustrazione non è dei tedeschi ma degli altri europei nei confronti della Germania.
Ammesso che vinca Brexit, il modo giusto dell’Europa per ridurre le conseguenze negative, quale sarebbe?
In teoria, accelerare il processo di unificazione europea. Perché a quel punto ci sarebbe un contraccolpo di paura e, con le spalle al muro, si potrebbe decidere di gettare il cuore oltre l’ostacolo e dire: “facciamo l’unificazione”. Però bisognerebbe fare i conti con le paure del lavoratore tedesco, del contribuente tedesco. La paura della Germania deriva dal fatto che i suoi cittadini sono convinti che loro stanno pagando per tutti. Alla domanda di un sondaggio su quale Paese abbia beneficiato di più dell’euro, la risposta dei tedeschi è stata la Grecia. Questi sono pazzi….
Questo articolo continua sul numero 25 di Left in edicola dal 18 giugno