Comunque vada a Milano ha vinto la tenerezza. La tenerezza di vedere la centrodestrorsità di un candidato come Beppe Sala (formalmente di centrosinistra), tutto numeri manageriali e bilanci d’artificio, che si finge improvvisamente sinistro e radicale per racimolare i voti che servono per sconfiggere il candidato di centrodestra al ballottaggio milanese. Il «rigore a porta vuota» (aveva detto così Renzi della candidatura di Sala a Milano, con la solita sicumera che ultimamente non sembra portare troppa fortuna) in realtà si è stampato sul palo e, nonostante la simulata euforia, a Milano ora il Pd (e i resti di Sel che hanno deciso di rimanere nell’impotabile coalizione) hanno paura di perdere. Eccome. Ecco perché anche a Milano si comincia con la solita tiritera del «non fare vincere la destra», delle differenze a sinistra che «non sono sostanziali» e tutto quel solito brodo che ci ha portato fin qui.
Come? Sono anni ormai che per non fare vincere la destra a sinistra si continua ad accettare il meno peggio, finendo per fare del Pd un partito di centrodestra: la favoletta del tener conto delle realtà locali è stata già punita dal voto quando una settimana fa a Milano s’è dovuto prendere atto del fatto che l’esperienza Pisapia (meglio: la speranza che aveva acceso l’esperienze Pisapia) non ha trovato il suo naturale sbocco nella candidatura di Beppe Sala e al di là dei numeri l’aria che si respira in città è ben lontana dal fiume di gente che accompagnò la rivoluzione arancione, festeggiando in piazza Duomo sotto un beneaugurante arcobaleno. Il crollo di consensi del Partito democratico pesa e, soprattutto alla luce di una campagna elettorale che ha potuto sfruttare l’onda lunga di Expo e della sua narrazione epica, preoccupa il comitato elettorale di Beppe Sala che, infatti, ha provato a smuovere gli ultimi giorni di campagna elettorale con qualche annuncio a sorpresa: prima il nome di Gherardo Colombo per presiedere un nuovo Comitato per la Legalità (pur essendo i poteri di un sindaco ben ristretti sull’argomento) e poi con i nomi nella futura giunta di Emma Bonino (per i rapporti con l’estero), Linus (sì, proprio lui, quello della radio) e Umberto Ambrosoli (capogruppo dell’opposizione a Maroni in Regione Lombardia, con il nodo del doppio ruolo).
Ma la domanda è la solita: «E quindi che si fa, si vota Parisi con Maroni, Salvini e berlusconiani?». E qui, forse, bisognerebbe avere il coraggio di decidere se la politica del Pd sia davvero così differente da quella degli orchi sventolati per spaventarci: sul tema della giustizia e del lavoro questo Pd ha coronato i sogni berlusconiani, sul tema della scuola e delle privatizzazioni il passo del centrosinistra a governo non sembra così distante dalla gestione lombarda di Roberto Maroni; «e Salvini?» è di solito l’ultima disperata domanda. Ma che differenza c’è tra il turpiloquio xenofobo di Salvini e l’arroganza costituzionale della Boschi? Un pregiudizio, certo. Ma che sembra non bastare più.
Questo articolo è in edicola sul numero 25 di Left in edicola dal 18 giugno