Sondaggi smentiti: più di 17 milioni i cittadini britannici hanno scelto di uscire dall’Europa, circa il 51,8% dei votanti. La partecipazione al voto è stata alta, ma non come appariva essere nelle prime ore dopo il voto (72%, si diceva 80%) e ieri notte tutto sembrava filare liscio. Nigel Farage dichiarava «Sembra che il Remain l’abbia spuntata» e due sondaggi diffusi dopo la chiusura delle urne – ma non exit polls – assegnavano la vittoria al fronte europeista. Come nel 2015, quando i sondaggisti non avevano previsto l’ampiezza della vittoria dei conservatori di David Cameron, le rilevazioni erano sbagliate e la Gran Bretagna si è svegliata fuori dall’Europa.
Cameron si dimette de facto
David Cameron è uscito alle 8 e 20 del mattino di Londra e ha annunciato le sue dimissioni entro pochi mesi: «Vorrei rassicurare gli investitori e gli europei che vivono qui: non ci saranno cambiamenti immediati e nel modo in cui le persone viaggiano, i beni si comprano e vendono. Ai negoziati devono partecipare anche le autorità scozzesi, gallesi e nordirlandesi» – un modo per tenere assieme il regno, che ha votato in maniera molto difforme. Dopo le rassicurazioni la bomba politica: «Sono stato un orgoglioso premier britannico e ho combattuto questa campagna in maniera diretta e chiara e non me ne pento, io credo che la Gran Bretagna è più forte in Europa. Ma i britannici hanno votato e credo che serva una nuova leadership. Non posso essere il capitano che guida fuori dall’Europa. Non c’è una timeline e per i prossimi tre mesi il premier sarà io, ma per la conferenza conservatrice di ottobre serve una nuov leadership». Cameron e la moglie Samantha si girano e si incamminano verso il 10 di Downing Street senza voltarsi. Il premier aveva la voce rotta, durante le ultime frasi della sua dichiarazione. Probabilmente entrambi piangevano. Il premier ha investito molto capitale politico per vincere una battaglia contro la parte del suo partito che lo combatteva. Ha peso di brutto e con lui la Gran Bretagna e l’Europa.
I negoziati, quindi, con la richiesta di Londra di attivare l’articolo 50 dei Trattati, saranno condotti da un nuovo premier (o magari dallo stesso Cameron, improbabile) ma con un nuovo mandato chiaro. Non sarà il premier favorevole all’Unione a dover negoziare per uscirne, ma un governo in linea con il sentimento dei britannici – o meglio, degli inglesi.
Come si esce: l’articolo 50 del trattato di Lisbona
Ai sensi dell’articolo 50 del trattato sull’Unione europea, uno Stato membro può notificare al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione e avviare le trattative per il ritiro. I trattati cessano di essere applicabili a tale Stato a partire dalla data del contratto o, in mancanza di un accordo, entro due anni dalla notifica, a meno che lo Stato e il Consiglio europeo siano d’accordo nel prorogare tale termine. L’accordo delinea anche il quadro di riferimento per le future relazioni dello Stato interessato con l’Unione. L’accordo deve essere approvato dal Consiglio, che lo delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo. Chi esce, volesse rientrare, è sottoposto al processo a cui sono sottoposti tutti coloro che chiedono di diventare membri dell’Unione.
Le borse
Ai mercati finanziari la cosa non è piaciuta: la sterlina è precipitata ai livelli del 1985, subendo il peggior crollo della sua storia e perdendo circa l’11% del suo valore in poche ore. Il Nikkei, l’indice di Borsa di Tokyo, è sceso del 7% mentre scriviamo, l’Hang Seng di Hong Kong del 4,3%, Londra -11,4% peggiore crollo mai registrato, Francoforte -10%, Parigi -8%. Giù S&P e balzo in avanti del prezzo dell’oro. Le autorità della piazza finanziaria più importante del mondo assieme a Wall Street si sono affrettate a emettere un comunicato: siamo e restiamo un centro cruciale, lo siamo stati per secoli, non ci sarà una fuga di banche, dicono. Certo non succederà nelle prossime ore, ma qualche rischio per uno dei settori trainanti dell’economia britannica c’è.
Giovani europeisti, anziani nazionalisti
Il Paese si è diviso, come previsto su linee generazionali e geografiche. I 18-24enni hanno votato al 75% per rimanere in Europa, i 25-49enni al 56% Remain, gli over 50 fino a 64 al 56% per uscire e gli ultrasessantacinquenni al al 61%. Ogni contea della Scozia ha votato per rimanere: il 62% degli scozzesi vuole stare in Europa e si trova fuori contro la sua volontà. Il Nord Irlanda ha votato per rimanere, così come Londra (59,9%), il Galles, un po’ a sorpresa, vota per uscire. Tutta l’Inghilterra, ma di più le zone del Nord ex industriale dove il Labour è forte, votano per uscire. In generale, la parte che guarda al passato, nazionalista, preoccupata per il futuro vota per uscire. C’è un pezzo di Europa che, in ogni Paese, non sa dove si vada e lo dice in ogni forma nelle urne e mandando segnali molto diversi tra loro: votando Corbyn leader, votando FN in Francia, 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, eleggendo un governo di sinistra in Portogallo.
Le altre conseguenze politiche del voto
Sono molte e diverse tra loro. I vincitori di questo scontro sono Boris Johnson, che guida le classifiche degli scommettitori come prossimo leader conservatore, e quella parte del partito conservatore che ha lavorato per quello che il leader dell’Ukip, il partito nazionalista e un po’ xenofobo, Nigel Farage ha definito “independence day”.
Non va bene neppure al Labour: dopo aver perso la Scozia, le zone dove il partito di Jeremy Corbyn è più forte votano per uscire contro il timido volere del suo partito. I laburisti non escono sconfitti, ma malconci sì. Non avrebbero voluto il referendum, ma sono in qualche misura ininfluenti: persa la Scozia, oggi non determinano il risultato nelle aree dove sono più forti – se non nella cosmopolita e giovane Londra. Lo scozzese SNP e il Sinn Feinn nordirlandese hanno un argomento in più per invocare la separazione dal Regno Unito. E lo stanno già timidamente facendo.
La carica degli anti-europeisti
Il profilo Twitter di Marine Le Pen, leader del Font National francese è ammantato con l’Union Jack britannico. Non una bestemmia ma una presa di posizione, quella del tweet qui sotto: «Ha vinto la libertà! Lo chiedo da anni, anche in Francia lo stesso referendum».
Victoire de la liberté ! Comme je le demande depuis des années, il faut maintenant le même référendum en France et dans les pays de l’UE MLP
— Marine Le Pen (@MLP_officiel) 24 giugno 2016
Stesse dichiarazioni ha rilasciato l’olandese Geert Wilders. In casa nostra, più ambiguo, che sa che in Italia la maggioranza è, nonostante tutto, con l’Europa, Matteo Salvini gioisce e dice «Adesso tocca a noi».
L’Europa reagisce
Donald Tusk ha appena convocato un meeting a 27, il primo senza Londra. Mentre il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz twitta: i britannici hanno sempre avuto una relazione ambigua con l’Europa. Ora il loro volere va rispettato, servono negoziati rapidi e chiari
For 40 yrs #UK relation with #EU was ambiguous. Now it’s clear. Will of voters must be respected. Now need speedy & clear exit negotiation
— EP President (@EP_President) 24 giugno 2016
I negoziati non saranno facili: Oggi abbiamo pesiamo molto meno in Europa, ha detto il Foreign Secretary, il ministro degli Esteri Hammond, aggiungendo «Putin sarà felice del risultato». Negoziare i termini dell’addio non sarà facile: l’Europa ha enormi problemi e dovrà in qualche modo scoraggiare altri a seguire le orme di Londra. Donald Tusk ha detto: vogliamo mantenere la nostra unità a 27. Non sarà facilissimo. Crisi dei rifugiati, Grecia – e poi Italia e Francia – sono un problema serio e il progetto europeo consolidatosi negli anni 90 oggi è un malato terminale. Servirebbe uno scatto da parte di una classe dirigente che in questi anni è stata incapace di pensare ad alternative migliori, eque, sostenibili per i singoli Paesi.
I prossimi giorni diranno quanto grave è la crisi europea.