Chi ascolta le esigenze di chi vive in zone difficili e di periferia ne prende i voti, l’altro ieri era il Pci, oggi il M5s. Ora, dice Michela Murgia, dobbiamo immaginare una società basata sulla cultura non sullo ius soli e sullo ius sanguinis

L’assenza di un’idea di bellezza nella progettazione di uno spazio abitativo urbano produce un degrado, che non è solo materiale, ma determina un disagio, scrive Michela Murgia nel suo nuovo libro Futuro interiore, pubblicato da Einaudi. Nella Capitale, come in molte altre città sono state costruite delle periferie che sono dei “non luoghi”, dove la piazza è al più un parcheggio. Il voto al M5s alle ultime elezioni amministrative è venuto in larga parte proprio da lì, stando alle analisi apparse sui giornali. «Non direi che Chiara Appendino e Virginia Raggi vengano esattamente dalle periferie», precisa la scrittrice. «Tuttavia è indubbio che i quartieri marginali abbiano avuto l’impressione di non essere più ascoltati dai referenti consueti, e hanno cambiato interlocutore», dice la scrittrice che nell’ultimo anno ha vissuto a Torino.

Dunque il risultato non l’ha sorpresa?
Non c’è niente di sorprendente nel fatto che i cambiamenti, in questo caso di amministrazione, partano dai luoghi dove si sta male, dato che dove si sta bene nessuno ha interesse a cambiare alcunché. Qualunque partito che ascolti e sembri farsi portatore delle situazioni di disagio prende i voti del disagio: l’altro ieri era il Pci, ieri era la Lega, oggi il M5s, domani sarà un altro. Sono partiti diversi, ma a votarli sono le stesse persone, il che significa che la decisione nell’urna non dipende da un posizionamento ideologico, dall’adesione o meno a un’idea di mondo, ma da uno sconforto pre-politico, che porta a fidarsi non tanto di chi promette una cosa o l’altra, ma semplicemente di chi c’è, chi ha con il territorio una relazione viva, di ascolto, di presenza, di condivisione. Il resto è una conseguenza e forse lo capirà anche chi in questi anni ha pensato di poter arrivare al consenso facendo a meno della relazione coi cittadini.

«Il dissenso è essenziale all’esperienza democratica», lei scrive. Ma persino il Partito democratico, che ha la parola “democrazia” nel nome teme il dissenso e in aula procede a colpi di fiducia. Cosa ne pensa?
Il dissenso non è gradito ad alcuno che abbia un potere di governo, ma non ho visto nessuno gestirlo sgraziatamente come i renziani. Dalla puerile definizione di «gufi» fino al tristemente famoso «ciaone» con cui sui social media sono stati presi per i fondelli i promotori dell’ultimo referendum sulle concessioni di estrazione degli idrocarburi, è evidente che la delegittimazione del dissenso è la prassi nel governo attuale. Lo stesso invito a disertare le urne rivela quanto poco il manovratore desideri essere disturbato mentre ha le mani sulle leve. L’apoteosi dello spirito accentratore del governo renziano si vede però nella proposta di riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a votare in autunno: i poteri decisionali che verrebbero sottratti alle regioni (cioè alla base territoriale) per assegnarli ai ministeri (cioè agli apparati sotto il diretto controllo del governo) sono uno degli ultimi ambiti di organizzazione del dissenso che ci resta. Un ottimo motivo per votare “No”.

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