Siamo di fronte a eventi storici che influenzano in modo determinante il corso e il futuro dell’Europa e dei suoi popoli. Il tempo storico è denso, procede a una velocità molto superiore da quella con cui i leader europei si sono abituati a reagire. Così l’Europa patisce gli effetti dell’insufficienza e dei ritardi nell’affrontare la crisi. Una crisi che ha le sue radici nell’economia, ma che si trasforma in crisi politica.
Un continente in crisi d’identità
Il risultato del referendum in Gran Bretagna è l’ultimo evento di questa drammatica crisi politica. Le carenze croniche delle leadership europee, il persistere in politiche di austerità, il tentativo di sfruttare riflessi xenofobi e la retorica anti-immigrati, hanno alimentato, già da tempo, populismo, sciovinismo, nazionalismo.
La decisione del popolo britannico va rispettata, conferma una crisi di identità dell’Europa. Una crisi strategica. E, naturalmente, questa crisi non arriva come un fulmine a ciel sereno: quando si costruisce un’Europa aprendo i confini all’austerità e all’autoritarismo ma chiudendoli agli uomini, costruendo recinti, lasciando correre certe politiche, la retorica dell’odio e dello sciovinismo, credo che l’ultima cosa che si possa fare è dare la colpa ai popoli. Le responsabilità sono dei leader che hanno creato un’Unione europea che è unione solo nel nome, priva di una vera solidarietà e della reciproca comprensione tra gli Stati membri. Un’Unione che ricorda le regole che si è data quando vuole punire gli indisciplinati, ma che le dimentica quando si tratta di distribuire in modo equo i costi. Infine, un’Unione che invece di integrare continua ad alimentare le tendenze euroscetticiste, a dare argomenti a bigotti e demagoghi, un tempo residuali e oggi assurti al ruolo di protagonisti della Storia.
Quell’avvertimento a Cameron
Se vogliamo trovare la madre della crisi attuale, cerchiamola in chi ha fatto circolare la caricatura ideologica del “Nord lavoratore” e del “Sud pigro”. Per cui i popoli del Nord si sentono autorizzati a chiudere fuori dai confini gli immigrati fastidiosi e quelli del Sud dovrebbero sentirsi degli intrusi in Europa. Questo non può più continuare a essere. Oggi abbiamo bisogno di un nuovo inizio e di una nuova visione dell’Europa unita. Questo vuol dire più Europa o meno Europa? Meno Europa, è ovvio, è l’esempio della Gran Bretagna, che può essere seguito da altri Paesi. Ricordo, durante il vertice in cui si decise uno status speciale per la Gran Bretagna, di aver avvertito Cameron: mi auguro – gli dissi – che questa decisione, imposta dalla necessità e senza il pieno consenso di tutti, ti aiuti a vincere il referendum, ma non ne sono sicuro. Perché se per tanto tempo hai cercato di convincere i cittadini britannici che è meglio meno Europa, primo o poi vincerà l’opzione niente Europa.
Liberi dai tecnocrati
D’altra parte, che vuol dire più Europa? I suoi leader, quelli che oggi la invocano, devono chiarire che cosa significa. Se significa un’Europa più autoritaria, meno democratica, più antisociale, senza sovranità popolare, allora possiamo farne a meno. La risposta è più Europa sociale e democratica. Un’Europa in cui torni la politica, libera dalle redini dei tecnocrati.
Quando ci siamo rivolti al popolo greco, l’estate scorsa, non abbiamo pensato neppure per un momento di abbandonare l’Europa, ma di cambiarla, con gli altri popoli, in modo radicale. Gli attuali leader europei, però, gli stessi che ora ci sorridono e ci salutano, allora per intimidirci hanno distorto i fatti dicendo che la domanda del nostro referendum era “per la permanenza o per l’uscita” dall’Europa.
Abbiamo dovuto ripetere, con pazienza, che non volevamo uscire dall’Unione europea o dall’euro, ma che cercavamo un accordo più giusto. Syriza è una forza internazionalista che dà battaglia per cambiare l’Europa dal suo interno, non per sciogliere l’Europa.
Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 2 luglio