Teste che cadono dopo aver vinto e cambiato – forse – la storia del loro Paese. Dopo Boris Johnson è la volta di Nigel Farage. Anche David Cameron si è dimesso, ma lui aveva perso. A pochi giorni dal referendum che ha potenzialmente portato la Gran Bretagna fuori dall’Europa comunitaria – sul quando e sul come la chiarezza è poca, sia da parte dell’Unione, dove è in corso uno scontro tra Bruxelles e Berlino dalle conseguenze poco chiare, sia a Londra – tutti i leader di partito ballano e il segretario con più mesi di attività alle spalle è Tim Farron del partito liberal-democratico, nominato nel luglio 2015, dopo la disastrosa esperienza del partito come partner minore della coalizione con i conservatori.
Ma torniamo a Farage: con una conferenza stampa a sorpresa ha annunciato di dimettersi dalla sua carica di leader dello Uk Independence Party (Ukip) perché «dopo essermi ripreso il mio Paese, è ora di riprendermi la mia vita». Farage ha scherzato ricordando come nel 1994, quando per la prima volta corse per una carica elettiva, ottenne pochi voti in più di Screamin’ Lord Sutch, personaggio mitico e minore della storia musicale dell’Inghilterra degli anni ’60, che da un certo momento in poi si presentava alle elezioni con il suo Official Monster Raving Loony – e che proprio nel 1994 prese 1114 voti, in un seggio.
Ma torniamo a Farage, che nel 1994 suonava un po’ come il signore qui sopra, Screamin’ Lord Sutch, appunto. Ci ha messo 22 anni, ma la parabola della sua figura da rappresentante perfetto dell’inglese medio, foto al pub, sigaro, battuta sempre pronta e linguaggio schietto è quella di molti altri personaggi del panorama politico europeo. Da semi-paria o marginali, a centrali nel dibattito politico, se non nei consensi. La sua ossessione con il ritorno alla Vecchia Inghilterra, le frasi a effetto sull’invasione degli immigrati e le paure disseminate a man bassa – come il riferimento al numero delle persone straniere sieropositive residenti in Gran Bretagna a spese dell’NHS, la sanità pubblica, nel dibattito Tv che precedette le elezioni europee nel 2014 – sempre dette con il sorriso sarcastico stampato sulla faccia sono uno dei tormentoni della politica del Regno di Elisabetta da qualche anno a questa parte. Se il sistema elettorale maggioritario puro britannico non ha mai premiato lui e neppure il suo partito oltre misura, la sua presenza è riuscita a cambiare il tono del dibattito politico, spostando i conservatori a destra.
Che ne sarà ora dell’Ukip è difficile a dirsi. Già tre volte Farage si è dimesso per poi tornare guidare il partito, che è evidentemente una sua creatura e che senza di lui rischia di scomparire. Specie adesso che il referendum è fatto. Può anche darsi che proprio il timore di perdere di centralità e peso politico abbia consigliato al buon Nigel di farsi da parte. L’altra possibilità è che Farage tema che tutte le sparate, esagerazioni e bugie dette durante la campagna referendaria gli tornino indietro e che voglia evitare di essere sulla scena pubblica quando la conseguenze pratiche della Brexit prenderanno forma.
Attenzione però: Farage non si è dimesso da eurodeputato e ha detto che «Seguirà con attenzione la situazione della Brexit e le trattative» e che nella delegazione che negozierà con Bruxelles dovranno esserci rappresentanti di tutto lo spettro politico. Una candidatura? Difficile venga accolta. L’altra battuta è: vedremo che situazione ci sarà nel 2020. Ovvero: una bella pausa di riflessione, un po’ di presa di distanze e poi, se ce ne sarà l’occasione, un bel ritorno alla guida della sua creatura.
Per paradossale che sembri, tutta la partita referendaria era una partita interna alla destra britannica e alla sua leadership e i risultati non sono buoni per nessuno. David Cameron, che aveva scommesso sul referendum per tenere a bada la rivolta nel suo partito e tagliare le teste dei suoi avversari, è stato il primo a essere decollato. Secondo è venuto Boris Johnson, che era rimasto indeciso sulla posizione da prendere tra Remain e Leave chiedendosi quale scelta sarebbe stata migliore per il suo futuro politico. L’ex sindaco di Londra sperava di ottenere un buon successo del Leave, senza vincere, e di poter segnalare come la maggior parte dei voti per l’uscita dall’Europa venissero dalla base conservatrice. Ha vinto e, quindi, perso. Terzo a uscire di scena, almeno per ora, è Farage, vittima del suo trionfo.
Quarto potrebbe essere Michael Gove, che ha prima tradito Cameron, poi guidato la campagna per il Leave assieme a Johnson, poi gli ha assicurato che avrebbe diretto il suo staff per contribuire ad aiutarlo a divenire leader dei conservatori e, infine, lo ha mollato. Oggi Gove è terzo per sostegni di deputati ricevuti tra le persone candidate a guidare i tories e il Paese e potrebbe non partecipare al ballottaggio. L’enorme paradosso è che nettamente in testa per sostegni ricevuti c’è Theresa May, unica candidata leader a essersi schierata per la permanenza nel Regno Unito.
Quanto al Labour, la situazione rimane di stallo. C’è una parte dei deputati fedeli a Corbyn che propone una mediazione interna svolta dalla leadership della TUC, il Trade Union Congress, i sindacati, che sono più vicini al leader ma hanno assoluto bisogno di un’opposizione che funzioni. Il problema è che le fazioni non si parlano e che, senza uno sfidante ufficiale, non c’è, per coloro che vogliono defenestrare il leader di sinistra, un modo per far dimettere il capo del Labour. Corbyn non ha nessuna intenzione di dimettersi e promette battaglia in caos di una sfida. È una situazione molto difficile che rende meno gravi le divisioni e il caos interno al partito conservatore.