La notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945 è la notte del massacro di Schio. Abbiamo fatto qualche domanda al professor Giovanni De Luna, ordinario all'Università di Torino

È la notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945, il conflitto è finito da poco più di due mesi: il 25 aprile. Ma la violenza innescata dai due anni di guerra civile non può ancora dirsi completamente domata. È in questa cornice che s’inserisce il massacro di Schio.

Pieve di rivoschio, ottobre 1944. Un contadino e alcuni partigiani e soldati italiani trainano una jeep
Pieve di Rivoschio, ottobre 1944. Un contadino e alcuni partigiani e soldati italiani trainano una jeep

L’antefatto, la ricostruzione e le condanne

In una manciata di giorni, tra la fine di aprile e gli inizi di maggio, i tedeschi in ritirata massacrano 82 civili nella vicina Pedescala. È la rappresaglia dopo un attentato partigiano. Qualche giorno prima, il 16 aprile, le Brigate Nere hanno seviziato e ucciso Giacomo Bogotto, giovane partigiano di Schio. Dopo questi accadimenti un gruppo di partigiani vicino alle Brigate Garibaldi fa irruzione nel carcere mandamentale del piccolo paese vicentino. Liberati i detenuti per reati comuni, il commando partigiano giustizia 54 tra uomini e donne, vicini alla Repubblica di Salò o componenti del Partito Fascista. Secondo le ricostruzioni storiche e giudiziarie, però, soltanto 27 di quei detenuti potevano essere considerati prigionieri politici fascisti. Da quei processi sotto la giurisdizione alleata, poi, scaturiscono anche tre condanne a morte e due all’ergastolo per gli autori del massacro. Condanne poi comminate in pene minori nei due processi penali degli anni 50. Ma le attribuzioni di responsabilità definite dai processi quasi nulla hanno lenito, e la lacerazione nella memoria di quanto successo è rimasta profonda.

Vicenza, partigiani sfilano subito dopo la Liberazione
Vicenza, partigiani sfilano subito dopo la Liberazione

Memoria privata e patto di cittadinanza

Luoghi storici in cui la memoria si cristallizza, gli anniversari aprono sempre lo spazio alla riflessione sul ruolo di chi ricorda, ma anche sulla consapevolezza delle esperienze sociali e personali evocate. E diventano pure luogo di conflitto, in cui memoria pubblica e privata s’incontrano e scontrano. «La memoria privata degli eventi fatica a elaborare il lutto», spiega lo storico Giovanni De Luna. È una memoria che non passa, che non può essere placata da quel patto di cittadinanza sancito dalle istituzioni al loro formarsi e che ha nella memoria storica le sue radici. In altre parole – continua l’autore di molti testi sulla storia e la memoria della Resistenza – il patto di cittadinanza è fondato su di una memoria storica selezionata che accoglie, celebrandoli, alcuni avvenimenti e ne esclude degli altri. Ecco che, in questa chiave interpretativa, si possono comprendere le polemiche suscitate, nello scorso aprile, dall’attribuzione a Valentino Bortoloso – il partigiano “Teppa” condannato come autore dell’assalto e beneficiario di amnistia nel 1955 – della medaglia alla Resistenza (riconoscimento conferito dal ministero della Difesa per onorare i meriti di coloro che contribuirono alla guerra di Liberazione). A Schio si è protestato molto, per il sindaco Walter Orsi, l’onorificenza lede il patto di pacificazione tra vittime ed esecutori. Perché è fondato sul riconoscimento dell’ingiustizia perpetrata dalla violenza partigiana e non può, quindi, per sua natura, accogliere il riconoscimento delle istituzioni. Nell’analisi di De Luna, patto di cittadinanza e memoria privata sembrano essere a Schio particolarmente inconciliabili.

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Un partigiano durante una manifestazione del 25 aprile

Il peso del vuoto istituzionale e l’inevitabile ricorso alla violenza, un’interpretazione

Scevra di ogni implicazione emotiva e dovere istituzionale, la storiografia – come scrive l’autore de La Resistenza perfetta – può fornire un quadro consapevole e sereno di quanto accaduto, poiché suffragata dalla ricerca. Aperta resta invece la questione di come interpretare, argomentare e dare senso a quanto accaduto. Ancora secondo De Luna, l’eccidio di Schio diventa storicamente comprensibile solo attraverso la categoria dell’interregno:
«Il rubinetto non si chiude il 25 aprile; il Paese diventa difficile da governare e ancora più difficile diventa frenare quel surplus di violenza originato dal disintegrarsi di ogni forma di potere statale. Sì, un governo ci fu dopo la Liberazione, quello degli alleati, ma era una sovranità illusoria», continua De Luna. «È lo Stato a detenere il monopolio legale della violenza e quando questo, nella sua antica forma, viene a crollare e una nuova forma stenta a consolidarsi, si crea un vuoto. Un cratere, entro cui la giustizia viene con l’essere esercitata da e per i singoli». È nel contesto di quest’assenza che si può provare a capire come la violenza partigiana a Schio fu resa possibile e legittima.