Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio 1944: “I venti ebrei non erano ancora rientrati. Uno ad uno quei settanta vennero poi a salutarci tutti, e quella notte al campo, si fu più preoccupati“. Alba Valech Capozzi, internata tra gli ebrei, ricorda così gli attimi che precedono la fucilazione dei 67 prigionieri partigiani.
Nel frattempo, nel vicino Poligono di Cibeno, su ordine delle SS i venti ebrei sono costretti a scavare una grande fossa. Ricondotti al campo all’alba, agli ebrei viene impedito di rientrare nelle proprie baracche: sono costretti a dormire in uno dei locali di sorveglianza del campo e gli viene ordinato di non far parola con nessuno di quanto hanno visto. I settanta, invece, vengono raggruppati e accompagnati sul piazzale del campo. Divisi in tre gruppi, i nazisti caricano i partigiani su dei camion e li portano al Poligono.
Nella chiamata a raccolta, il Maresciallo Haage decide di risparmiare Renato Carenino. La scrupolosa metodicità con la quale i nazisti pianificano la rappresaglia per un attentato subito a Genova, non può includere Carenino: sarebbe il settantunesimo della lista. Durante quella notte, c’è chi la scampa e chi scappa: uno dei prigionieri – Teresio Orivelli – riesce a nascondersi, mentre Mario Fasoli e Eugenio Jemina arrivati al poligono, dopo essersi lanciati un rapido sguardo d’intesa si scagliano sui tedeschi riuscendo a scappare. La rivolta scatenata dai due per fuggire alla morte, viene subito sedata dalle SS che allineano i prigionieri sui bordi della fossa e con un colpo di fucile ci scaraventano dentro i loro cadaveri. E’ una rappresaglia, un atto legittimo: poco prima di sparare, i tedeschi leggono ai prigionieri partigiani la condanna.
Come già accaduto alle Fosse Ardeatine nella primavera di quello stesso anno, i tedeschi per non lasciare traccia, ricoprono la fossa. Se però a Roma l’eccidio dei 335 era stato comunicato ufficialmente una volta eseguito, la notizia di Cibeno arriva a Genova addirittura una settimana prima della strage. Sui muri dei palazzi della città ligure, il 6 luglio infatti compare un manifesto con il quale i nazisti comunicano alla popolazione che in rappresaglia per l’attentato subito il 25 giugno – in cui erano stati uccisi sei dei loro soldati – 70 partigiani sono stati uccisi. Ecco spiegato, perché il settantunesimo partigiano, Carenino, viene risparmiato.
Nel modenese invece i tedeschi tacciono sull’accaduto e impongono il silenzio ai venti ebrei, al custode del poligono e al vescovo di Carpi – precipitatosi sul luogo della strage per fermare i nazisti e benedire le vittime. La voce, però, inizia a circolare. I prigionieri rimasti a Fossoli non vedendo tornare i settanta partiti all’alba del 12 si insospettiscono e tra la popolazione vicina al luogo della strage la notizia si sparge. Pochi giorni dopo, il 15 luglio, Fossoli, che era stato usato dai repubblichini come campo di concentramento e dai nazisti come anticamera dei lager, viene chiuso. Di lì, l’intervento delle autorità e la ritirata delle truppe tedesche, portano all’esumazione dei corpi e alle solenni esequie a Milano, il 24 maggio 1945.
Rievocata in occasione del suo anniversario e rimasta impunita dai processi che sono stati insabbiati e non hanno quindi potuto dargli giustizia, la strage del Cibeno viene oggi ricordata per la più giovane della sue vittime.
Felice Lacerra, il gappista ragazzino
La storia lo ricorda come il più giovane protagonista di un attentato partigiano. Operaio alla sezione V della Breda di Sesto San Giovanni, Felice Lacerra è a dieci anni, tra gli autori dell’attentato alla Casa del Fascio di Sesto. E’ il 10 febbraio 1944. Il ragazzo della Quinta viene arrestato subito e poi trasferito prima al Macello di Monza, e poi al carcere di San Vittore. Il 27 febbraio 1944 è a Fossoli dove resta fino al giorno della strage. Nella tenera lettera ai genitori e con tutta l’ingenuità che contraddistingue la sua età, il giovane gappista descrive il campo come un luogo piacevole dove: “si può stare all’aria a prendere il sole“. A luglio Felice viene aggiunto ai settanta della lista di Cibeno e muore a sedici anni assieme alle altre 67 vittime della strage. La storia di Felice Lacerra viene oggi ricordata dallo studioso Marco Manuele Paolini nel suo libro, Il ragazzo della Quinta.