La rete ferroviaria di un Paese è il certificato di famiglia del suo sviluppo. Un monumento si può velocemente sbianchettare, un lungo mare è possibile pulirlo e riacciotolarlo, ad una strada si può aggiungere una sbavata di asfalto, un porto si cantierizza in qualche mese con un bando europeo, un parco si ripulisce con un occhio ben allenato alle erbacce e alle sporcizie, un aeroporto cresce con un nuovo cubo prefabbricato. La ferrovia invece è ferro, legno, bulloni e passaggi infilati in gola: ci vuole fatica vera a spostare una ferrovia, lavoro pesante e sguardo lungo, lunghissimo poiché serve un occhio almeno qualche chilometro più lungo del capolinea.
Per questo la rete ferroviaria è la sindone a traversine di uno Stato: non si bluffa con qualche gingillo ma ha bisogno di un progetto che tenga conto di tutti gli anni prima. Per questo quella foto dall’alto dei due treni accartocciati in uno scontro frontale è un’immagine che non lascia scampo: dicono che si viaggiasse in deroghe alle norme di sicurezza, lì, dove l’errore umano sembra dovuto ad un fonogramma inascoltato. Un fonogramma: qui i treni partono come sessant’anni fa.
Se la politica non fosse un ring sapremmo tutti che questo incidente è lungo almeno sessant’anni, come il metodo di sicurezza applicato: ci sono rughe di questa Italia che non riescono a nascondere una diseguaglianza che s’è fatta mappa, ambiente o ferrovia. Un Paese che fruga le montagne per trasportare merci a trecento all’ora e intanto si scorda due treni su un binario unico in senso opposto in mezzo ad una fila d’alberi. A volte anche le tragedie non hanno nemmeno bisogno di troppe didascalie. Il 98% dei binari hanno un sistema di sicurezza che evita incidenti del genere. Qui no.
Il principale errore umano è avere anche i binari diseguali.