Il 2 agosto del 1980 ero un bambino intento ad altro. La strage di Bologna è un racconto che mi è rimbalzato anni dopo con tutto il fumo che ammanta le stragi italiane: microscopici dettagli sul dilaniamento delle vittime, minuziosi particolari delle loro storie, centinaia di angolature fotografate e scritte, chili di audizioni nelle diverse commissioni parlamentari, lenzuola di tesi disparate e un’enorme bibliografia. Per noi che siamo nati a cavallo della strage della stazione, Bologna è una biblioteca sterminata. E ci si perde nelle biblioteche folte ma senza logica. E talvolta si perde la verità, quella che non ha interesse a sembrare convincente.
La verità convincente è il prodotto politico di un Paese passato per il terrore: un’ostinata ricerca di un risultato semplice, condivisibile e soddisfacente per l’opinione pubblica. Così anche per la strage alla stazione di bologna gli anni hanno impresso l’orma di una verità gustosissima e prêt-à-porter. E fa niente se Licio Gelli, Cossiga, gli avanzi di Gladio e le criminalità diversamente organizzate sono passate come un raffreddore. Mambro e Fioravanti, anche quest’anno, sono l’imene ricostruito di una storia che si fa fossile, se serve per confortare.
Scriveva Sciascia in uno dei suoi ultimi libri (A futura memoria, 1989, Bompiani): «Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… ma ahimé, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo».
Tra terrorismo nero, coperture democristiane, internazionali anticomunisti, denti conficcati nel potere c’è il solito odore di trattative e paludi.
Chissà se impareremo a galleggiare, nelle paludi.
Buon martedì.