La legge 133/2016, il cui primo firmatario è Paolo Bolognesi, attuale presidente dell'Associazione vittime della strage di Bologna, era attesa da 23 anni. Fu pubblicamente richiesta il 2 agosto 1993 da Torquato Secci, primo presidente dell'associazione.

Le stragi che hanno segnato la storia recente del nostro Paese hanno tutte portato in dote un baluardo quasi insormontabile per chiunque sia stato incaricato di cercare i responsabili: le azioni di depistaggio. Servizi deviati, logge segrete, politici, militari e funzionari corrotti rispondendo agli interessi più disparati, di volta in volta hanno gettato sabbia negli ingranaggi investigativi e processuali sugli attentati terroristici a Bologna (Stazione centrale, 2 agosto 1980), Brescia (Piazza della Loggia, 28 maggio 1974), Milano (Piazza Fontana, 12 dicembre 1969) solo per citarne alcuni. Distruggendo, occultando, danneggiando o alterando prove e documenti, come solerti marionette della strategia della tensione hanno rallentato fino quasi a fermare il processo di ricostruzione della verità e di restituzione della giustizia alle vittime, ai sopravvissuti e ai loro familiari. Sapendo di rischiare poco o nulla per via di uno sconcertante vuoto normativo nell’ordinamento penale. Da oggi non è più così. “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, allo scopo di ostacolare o impedire indagini o processi, modifica il corpo del reato o la scena del crimine oppure mente o è reticente”, rischia il carcere da 3 a 8 anni. La sanzione sale fino a 12 anni quando l’azione è commessa in un processo per reati gravi tra cui la strage, l’attentato contro il presidente della Repubblica o la Costituzione, il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico e i reati associativi. Così cita la Legge 133/2016 che regolamenta il nuovo “delitto di frode in processo penale e depistaggio” e che per una coincidenza, o forse no, entra in vigore nel giorno del 36esimo anniversario della strage di Bologna. Approvata il 5 luglio scorso in via definitiva dalla Camera, la norma il cui primo firmatario è Paolo Bolognesi, attuale presidente dell’Associazione vittime della strage di Bologna, era attesa da decenni. Da quando per la prima volta il 2 agosto del 1993 Torquato Secci, primo presidente dell’associazione, ne fece richiesta pubblicamente dal palco della commemorazione.

Quella che non è certamente casuale è la frase scelta dall’associazione per il manifesto commemorativo di quest’anno: “Il Paese deve sapere chi, tramite Licio Gelli, fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti”. Sta lì a ricordare che ancora oggi non è messa la parola fine sulla vicenda storica e processuale di uno degli attentati più cruenti e crudeli del secondo dopoguerra. Si conoscono i nomi degli esecutori materiali – gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini – tutti condannati in via definitiva, manca quello del mandante e con esso di conseguenza il motivo per cui fu pianificata la strage provocata da un ordigno contenuto in una valigia lasciata dai terroristi nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione di Bologna. L’orologio, come tutti ricordiamo, segnava le 10:25.

Come ricostruisce Roberto Scardova in Alto tradimento. La guerra segreta agli italiani, da piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna, Licio Gelli è stato la figura chiave dei depistaggi delle indagini sull’attentato del 2 agosto. Non solo, nel libro – firmato per Castelvecchi con Antonella Beccaria, Giorgio Gazzotti, Gigi Marcucci e Claudio Nunziata – vengono per la prima volta prodotti i documenti desecretati che provano il ruolo della loggia P2 nel finanziamento della strage. È la calligrafia di Gelli, ricorda Paolo Bolognesi nella prefazione, quella su un foglio intestato “Bologna” in cui compaiono «un numero di conto corrente di una banca svizzera», e una cifra: 13.970.000 dollari. Il documento fu sequestrato al capo della P2 nel 1982 «al momento del suo arresto a Ginevra». Alto tradimento offre una rilettura documentata di come in Italia, fra gli anni Settanta e Ottanta, strutture clandestine, sollecitate e coperte – depistaggi, appunto – da ambienti istituzionali italiani e internazionali, abbiano attuato uno spregiudicato attacco alla democrazia basato sulla “guerra non ortodossa”. Dalle fitte pagine, dense di fatti, nomi e date, emerge con chiarezza che il finanziamento “Bologna” «in favore di più persone» fu completato tramite operazioni eseguite su banche facenti capo a Umberto Ortolani e Roberto Calvi. Il presidente del Banco Ambrosiano in seguito attribuirà ai servizi segreti proprio un finanziamento di 15 milioni di dollari assicurato dal Pentagono che «avrebbe fatto esplodere il mondo». Questa leggerezza, che fu registrata in segreto da Flavio Carboni durante una loro conversazione, determinò la sua condanna a morte. Quanto a Gelli, le ammissioni che confermano il suo coinvolgimento in un progetto eversivo realizzato dopo la strage del 2 agosto, fatte in un tre diverse interviste nel 2011 (Il Tempo), nel 2013 (Il Fatto) e nel 2015, andata in onda su La7 tre giorni dopo la sua morte, il 18 dicembre 2015, rappresentano una utile chiave di lettura anche della destinazione di quel finanziamento. Resta aperta la domanda: chi furono i mandanti? I depistaggi orditi dal Venerabile, che ha sempre tentato di minimizzare le responsabilità di Fioravanti e dei suoi camerati, fino a oggi hanno tenuto al riparo i burattinai della strage di Bologna. Ben presto alle informazioni prodotte dal libro “Alto tradimento” se ne potrebbero aggiungere di nuove altrettanto importanti. Una questione ritenuta pregiudiziale da chi indaga sulle menti di Bologna è il deposito – atteso entro il prossimo autunno – delle motivazioni della sentenza della Corte di assise di appello di Milano che a luglio 2015 ha condannato all’ergastolo i due neofascisti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone” dei servizi segreti, per la strage di piazza della Loggia a Brescia. I magistrati sposano in questo la tesi di Bolognesi che per conto dell’associazione dei familiari delle vittime lo scorso anno ha depositato in procura un dettagliato dossier, frutto di un lavoro di ricerca e dell’analisi incrociata di migliaia di pagine di atti giudiziari di processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 a oggi.

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).