Mirò, la forza della materia a Milano
Pollock a Malaga, nel Museo Picasso
Dopo il Guggenheim di Venezia e il MoMa di New York, ora è il Museo Picasso di Malaga a rendere omaggio (fino all’11 settembre) a Jackson Pollock con un’esposizione incentrata su Mural, l’opera monumentale che gli fu commissionata dalla collezionista Peggy Guggenheim nel 1943 e che rappresenta uno dei punti più alti dell’action painting.
Nel museo andaluso il potente murale astratto ritmato da arricciate linee verdi, rosse e nere campeggia nell’ultima sala insieme ad altre opere dell’artista americano come il drammatico Circoncisione e il Ritratto di H.M. (1945) in cui non resta nulla di figurativo. Questa sala monografica – quasi una mostra nella mostra – accoglie lo spettatore come un vortice di energia, dopo averne attraversate altre con opere di altri protagonisti della scuola di New York che non hanno la stessa forza e impatto emotivo. Nei fatti più interessante come studioso che come artista, Motherwell è rappresentato qui da una grande tela astratta intitolata Elegia per la Repubblica spagnola n. 126 (1965-75) in cui giganteggia una massiccia catena nera e gialla, che allude forse a un girotondo, ma che appare privo di movimento. Al pari di Lee Krasner e Robert Matta, anche Motherwell, in questo confronto diretto finisce per restituire a Pollock tutta la sua originalità. E ancor più ne fanno risaltare il profilo epigoni delle generazione successive, come David Reed (1946), che usano il dripping come tecnica razionale realizzando quadri che sembrano fatti al computer. Che ci riesca o meno (la sua opera è nel complesso piuttosto diseguale) l’intento di Pollock è di «lavorare per esprimere il mondo interiore». Il punto, scrive l’artista, è «riuscire ad esprimere l’energia, il movimento ed altre forze interiori». Questo è il filo che percorre la sua breve e folgorante carriera, dagli anni Trenta fin quasi al ’56 quando morì in un incidente d’auto, suicidandosi e uccidendo la sua giovane amica. La mostra Mural Jackson Pollock, la energià hecha visible di Malaga, che si dipana poco lontano dalla collezione permanente del Museo dedicato a Picasso, ha anche per questo il merito di illuminare meglio le radici dell’astrattismo di Pollock e il suo “debito” con il pittore malagueño, di cui studiò quasi ossessivamente i quadri del periodo cubista, esercitandosi nello scomporre le figure rappresentate, alla maniera delle Demoiselles d’Avignon, fino a farle diventare segni astratti. Accanto all’influenza picassiana la mostra riporta in primo piano anche l’interesse di Pollock per la pittura di El Greco (che lavorò a Toledo): con le sue figure ritorte e fiammeggianti è una presenza costantemente evocata anche nei suoi quadri astratti.
“Imagine” al Guggenheim di Venezia
Il verbo “to imagine”, in inglese, ha un senso evocativo, «corrisponde al formarsi dell’immagine mentale come qualcosa che non è presente ai sensi». Ma che è fortemente coinvolgente e corrisponde ad un’apertura al nuovo. A questa preziosa espressione, che rimanda ai processi di ideazione e alla nascita di un nuovo immaginario, Luca Massimo Barbero dedica la mostra Imagine, nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969, aperta fino al 19 settembre al Guggenheim di Venezia. Una retrospettiva che legge in parallelo l’esperienza dell’Arte Povera torinese e quella della Scuola di piazza del Popolo a Roma, che fu animata da Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni con altri artisti che si aggiunsero in seguito come Pino Pascali. Ad attrarli verso una prospettiva internazionale fu la Biennale di Venezia del 1964 che portò in Italia la Pop art. Quell’onda forte e prepotente di artisti che celebravano il sogno americano e il boom economico non trovò però in Italia una terra di epigoni e replicanti. Tutt’altro. Come raccontano bene questa retrospettiva e alcuni saggi critici pubblicati nel catalogo Marsilio. E se la risposta più originale e profonda venne da Torino dove Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e altri avviarono un nuovo linguaggio artistico che usava materiali poveri per creare sculture dalle forme poetiche ed essenziali, rimettendo al centro l’umano, a Roma, già dal 1960-61 artisti come Schifano e Angeli intuirono che occorreva uscire dall’attardato figurativismo che ancora dominava la Capitale. Per far sorgere nella mente nuove immagini, Franco Angeli ricoprì le sue tele di nero, vivo e cangiante, da cui vediamo emergere in filigrana sagome come quella della lupa capitolina che avanza come una pantera. Per raccontare questo passaggio chiave nel percorso di questo schivo artista romano il curatore Barbero ha ideato un effetto camera oscura, inanellando un trittico di opere nere. È come se questa serie iniziata proprio con La lupa del 1964 rappresentasse una sorta di grado zero della pittura, una porta stretta dell’arte italiana del ‘900, oltre la quale – come accade qui al Guggenheim di Venezia – si scorge il fiorire di nuove, più “leggere” immagini di avanguardia, penso al giardino di Kounellis, le sue fiabesche barche a vela (quasi un monocromo alla Manzoni) e i suoi stilizzati fiori giapponesi. Oppure, su un versante di nuova mescolanza di linguaggi, i ritratti ricreati dall’antico di Giulio Paolini che combinano disegno e stampe di quadri di Lotto o di Velàzquez, per arrivare poi a dipingere direttamente su tela fotografica, lasciando irrompere un inaspettato azzurro su meste figure magrittiane. Il 15 agosto, la Collezione Peggy Guggenheim deroga dalla normale chiusura e rimane aperta con il solito orario.
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Anish Kapoor a Napoli
Non appartiene a un genere definito, non si iscrive in una corrente e non è imitabile il modo di fare scultura di Anish Kapoor. L’artista angloindiano riesce a fondere in maniera originalissima tradizione orientale (nella scelta dei pigmenti in particolare) e occidentale (nel classicismo di eleganti forme primarie). La sua ricerca nasce all’incrocio di architettura e scultura, con l’attenzione rivolta al sociale che caratterizza la Public art ma al contempo appare come il risultato di un solitario percorso. Come ben racconta la mostra raffinata ed essenziale, che Kapoor presenta nelle sale di Casamadre a Napoli, fino al 15 ottobre. Nelle eleganti e luminose stanze di questa galleria aperta dal curatore Eduardo Cicelyn negli storici spazi di piazza dei Martiri che furono di Lucio Amelio s’incontra una manciata di opere di Kapoor, ma che sintetizzano in maniera incisiva e potente tutto il suo lavoro: dalle sculture di cera che sembrano forme in fieri, malleabili, sensibili al contatto, fino alle sculture specchianti, come quella nera che conclude il percorso napoletano, capace di moltiplicare e di capovolgere le usuali prospettive, catturando l’immagine dello spettatore a testa in giù. Quella di Kapoor è una cosmogonia di forme senza trascendenza (come nota giustamente Cicelyn) che giocano con gli opposti, concavo e convesso, morbido e duro, luce e ombra, superando la scissione interno esterno. Le sue sculture di puro pigmento colorato invitano quasi a toccarne la pelle, come membrana che mette in connessione, non come barriera. Così come il fondo nero dei quadri specchianti non nasconde un vuoto ma attira lo sguardo verso una profondità magnetica, vibrante, piena di riflessi cangianti, in continuo movimento. Andare oltre la superficie delle cose, evocare forme latenti che “intercettano” lo sguardo dello spettatore quasi fossero oggetti animati, questa è la sfida di Kapoor. Quando realizza sculture monumentali che ridisegnano completamente il contesto urbano in cui sono inserite. Ma anche quando, come in questo caso, accende spazi bianchi e minimal con sculture che sembrano vive “presenze”.
L’Egitto a Pompei
Sul fascino che esercitò Cleopatra sulla nobiltà romana, al tempo in cui era ospite di Cesare e sua amante, è stato scritto molto. E proprio nella Capitale, nel 2013, una mostra dentro il Chiostro del Bramante ricostruì efficacemente la diffusione della moda egizia nella latinità, soprattutto nelle ricche case patrizie che si riempirono di decorazioni ispirate ai geroglifici e di scene affrescate con visioni fantastiche del Nilo, di pigmei e coccodrilli. Ma non fu solo esotismo per svago dei ricchi. La mostra Egitto a Pompei (fino al 2 novembre), curata dal soprintendente Massimo Osanna con Marco Fabbri negli scavi di Pompei (nella palestra grande) documenta una penetrazione ampia e profonda di alcuni culti provenienti dell’Egitto. A cominciare da quello di Iside, a cui era dedicato un tempio importante nella città vesuviana. Tanto che il ricco commerciante locale (forse un ex liberto) che lo ricostruì a sue spese dopo il terremoto del 62 d.C. ebbe per ricompensa un posto nel Senato pompeiano. I romani, come è noto, praticavano una politica inclusiva nei riguardi dei culti pagani dei popoli assoggettati, spesso accogliendo queste nuove divinità nel proprio Pantheon. Ma nel caso del complesso culto di Iside, che sfuggiva all’ordine e alla razionalità su cui era basata la società latina, ebbero molti sospetti e cercarono, se non di regimarlo, almeno di tenerlo sotto controllo, come racconta Eva Cantarella che alla vita quotidiana nella cittadina distrutta dal terremoto del 79 d.C. ha dedicato due libri Pompei è viva (Feltrinelli) e Nascere e vivere e morire a Pompei (Electa Mondadori), entrambi scritti con l’archeologa Luciana Jacobelli. Fu dunque soprattutto la comunità greca che viveva a Pompei a mediare e a diffondere il culto di Iside, come testimonia anche l’impianto ellenistico del tempio, che fu riportato alla luce durante le campagne di scavi del 1764 e il 1766. Allora gli affreschi furono staccati e si possono vedere al Museo nazionale archeologico di Napoli, dove ha aperto una nuova sala dedicata al culto isiaco in Campania. Qui all’interno del percorso della mostra Egitto a Pompei, organizzata da Electa, la curatrice Valeria Sanpaolo ha ricostruito la disposizione originaria che affreschi, rilievi, mosaici e statue avevano all’interno del tempio, in stile ellenistico con un megaron per il sonno visionario degli iniziati. Alcune raffinatissime coppe di ossidiana, con intarsi di pietre dure, provenienti probabilmente da Alessandria d’Egitto e ritrovate a Stabia testimoniano la diffusione della cultura egizia anche in altre zone della Campania, non solo a Pompei.
Mimmo Jodice al Madre di Napoli
Poesia visiva, così è stata definita l’arte fotografica di Mimmo Jodice. Una definizione che ben si attaglia soprattutto alla serie “Attese”, immagini in bianco e nero dalle atmosfere incantate, in cui si stagliano rovine e straordinari paesaggi archeologici, da ogni parte del mondo, dalla sua Pompei , ad Atene, a Palmira, recentemente tornata drammaticamente di attualità, dopo la re-conquista jihadista. Al Museo Madre di Napoli – che fino al 23 ottobre dedica una grande retrospettiva a Mimmo Jodice, organizzata da Electa – la serie Attese campeggia accanto ad opere di Morandi, di Sironi, di De Chirico illuminando i “debiti” del grande fotografo con la pittura del Novecento capace di trasfigurare la realtà, di mostrare l’invisibile al di là dell’oggettività fredda delle cose.
Ma andando ancora più indietro nel tempo, ecco anche l’universo caravaggesco di Ribera, protagonista della pittura napoletana del Seicento che Jodice ha molto amato e studiato, come dimostrano alcuni suoi ritratti realizzati per strada, nei bassi e nei quartieri più poveri di Napoli e nelle fabbriche di Bagnoli. Al museo Madre sono esposti, insieme ad altri lavori di taglio sociale al piano terra, nella sala-agorà che si apre direttamente sulla città e che il direttore Andrea Valiani ha voluto chiamare “Re_pubblica madre”. E se in serie fotografiche come le Attese si dischiudono immagini dalle atmosfere, decantate, magiche, in questi lavori prevale una teatralità forte ed espressiva, che parla di capacità di resistere, di ingegnarsi, per reinventarsi la vita ogni momento.
È questo l’aspetto più straordinario di Jodice, la sua capacità di passare da un registro all’altro con disinvoltura, mantenendo sempre una grande intensità e uno sguardo originale. Fin dagli esordi, quando era vicino ai movimenti di avanguardia come il Gruppo 58 e faceva sperimentazione, realizzava opere “meta-letterarie” e al tempo stesso praticava un foto giornalismo schietto, diretto, privo di fronzoli. Jodice, infatti, esordì negli anni Sessanta con stampe off-camera, «impronte lasciate su carta sensibile e sviluppate parzialmente». Nel 1965 nacquero così i suoi Graffiti, che sovvertivano per molti versi il linguaggio fotografico dell’epoca. In questi lavori non c’erano celebrità, notizie, scoop, al contrario protagoniste della scena sono carcasse di auto, cataste di legna, pezzi di pavimentazione. Materiali di scarto, che sembrano avere una propria vita. Accanto a questa poetica della “materialità” Mimmo Jodice praticava una raffinatissima arte realizzando nudi femminili in controluce, che appaiono misteriosi, enigmatici, stranianti come Nudo Silhouette (1966) e poi Nudi maschili, colti in frammenti, allo specchio (una suggestione mutuata da Michelangelo Pistoletto), fino ad arrivare a sovvertire interamente la logica documentale della carta di identità, creando immagini che diventano arte a pieno titolo.
Domon Ken a Roma
Ara Pacis, a Roma. La teca di vetro progettata da Meyer, che protegge l’altare augusteo della pace, custodisce ora anche un altro tesoro: uno spicchio di Giappone antico e moderno. In poetico bianco e nero. Fino al 18 settembre qui sono esposte le straordinarie fotografie di Domon Ken, che nel secolo scorso ha raccontato per immagini il volto discreto e gentile del suo Paese, “narrando” la vita dei villaggi, delle pescatrici di perle, ma anche gli anni durissimi della guerra, il volto algido e militare del Giappone e poi e la rapida modernizzazione delle grandi città. Come in un film scorrono sulle pareti, rosse o scure, sequenze di stampe che testimoniano tutte le trasformazioni della nazione dal 1935 al 1979. Per questo maestro dalla sguardo morbido ed elegante furono più di cinquant’anni di intenso lavoro. All’insegna di un realismo che non si ferma alla documentazione. Il suo sguardo si posa con pudore e con un profondo dolore su Hiroshima. Domon Ken non si nasconde dietro l’obiettivo. Le sue opere seducenti, evocative, rivelano la sua intima partecipazione a ciò che ritrae. Specialmente quando i soggetti sono dei bambini. Che nelle sue foto appaiono straordinariamente vivi e vitali. Anche in mezzo alle macerie del dopo guerra, quando escono in strada al tramonto inventandosi sempre nuovi giochi. Nel catalogo Skira che accompagna la mostra, Kamekura Yusaku ricorda il rapporto immediato, d’intesa e di simpatia, che Domon Ken stabiliva con loro. Erano anni di povertà e di fame, di vita nelle baracche e di vestiti laceri, ma bastava poco perché nei più piccoli si accendesse la scintilla dell’immaginazione. E Domon Ken sa cogliere questi momenti “magici”, raccontando i bimbi per strada la sua ricerca tocca i momenti più liberi, alti e spontanei. Ma affascinanti sono anche i suoi lavori più ufficiali: ritratti di vigili issati su fragili strapuntini in mezzo alle prime strade trafficate del dopo guerra e abbaglianti parate militari, in cui Domon Ken insinua una vena sottilmente ironica, una critica felpata al militarismo evitando le provocazioni, ma al contempo lasciando intendere il suo pensiero. Bellissimi poi i ritratti di fanciulle in fiore e di giovani donne, sensibili, eleganti, sui tacchi alti e con i vestiti della festa, sognando amori nei giorni della ripresa e di pace. Alcune immagini anni Cinquanta hanno l’appeal tutto francese del cinema alla Resnais. Altre evocano la tradizione antica in abiti di seta richiamando i rituali di una geisha, ma perlopiù sono rare le tracce del passato. Quelle più seducenti vengono dalle maschere del Teatro No e dai templi buddisti in una imprevista esplosione di rosso, di nero e di oro. Fino al 18 settembre.
Scultura buddista dal Giappone
Quella offerta dalle scuderie del Quirinale dal 29 luglio al 4 settembre: per poco più di un mese nel centro storico di Roma si schiude uno spicchio di Giappone antico e poco conosciuto. L’esposizione curata da Takeo Oku invita a fare un viaggio nell’arte buddista che è fiorita soprattutto nel periodo Asuka tra il VII e l’VIII secolo e poi fino al periodo Kamakura (1185-1333). Un’arte che si è espressa in una elegante e potente statuaria in legno e altri materiali pregiati. La mostra Capolavori della scultura buddhista giapponese (nata nell’ambito di un ciclo di iniziative per far conoscere la cultura e le antiche tradizioni del Giappone) presenta 21 sculture di epoche diverse, provenienti da raffinati e silenziosi templi immersi nel verde, disseminati in varie zone del Paese come mostrano le fotografie che, insieme a approfonditi apparati informativi, accompagnano e contestualizzano le opere esposte. Percorrendo i due piani della mostra s’incontrano rappresentazioni di budda dorati e imponenti, sul volto un’espressione gentile, un sorriso appena accennato che sembra voler alludere a una dimensione interiore di calma e di apertura verso l’altro, ma si incontrano anche samurai dai volti corruschi e guerreschi. Se i primi rimandano alla tradizione indiana che si riferisce al budda storico, il principe Shakyamuni, le seconde sembrano piuttosto inserirsi nella tradizione guerriera giapponese o riferirsi alla mitologia asiatica – coreana in particolare – ricca di maschere grottesche, insieme orrorifiche e fiabesche. A colpire è la varietà di stili e di modi di rappresentazione all’interno di un canone prestabilito, fortemente codificato, che prosegue per parecchi secoli. A trasmettere di generazione in generazione stili e tecniche erano i busshi: spesso si trattava di monaci, in ogni caso erano scultori che lavorano a un risultato collettivo senza apporre la propria firma. Dalle loro mani uscivano non solo rappresentazioni di budda (maestri illuminati) e di sognanti bodhisattva (persone che aiutano gli altri). Ma anche di sovrani celesti corazzati. Quelli in mostra appartengono al periodo Heian (X secolo). E incuriosisce in particolare uno dei sei Kannon di Kyoto, dotato di sei braccia (dal potere taumaturgico). In questo caso appare evidente l’ibridazione fra culture diverse. Il precedente sostrato indù fu assorbito dalla filosofia buddista in Giappone anche utilizzandone l’iconografia. Ma fortissima è anche l’influenza dell’arte buddista cinese che conobbe il momento di massimo splendore sotto la raffinata dinastia Tang. Per approfondire consigliamo la nuova monografia Einaudi L’arte cinese di Sabina Rastetelli.
Dialogo fra antico e moderno a Roma
Per poter parlare di arte “contest specific”, «non basta issare una scultura su una rotatoria, come fanno molte amministrazioni comunali. Anche perché, perlopiù, si tratta dell’opera di un cugino del sindaco o di qualche altro suo congiunto|». Così una delle maggiori esperte di public art, Anna Detheridge, ha stigmatizzato la via tutta italiana a questo genere di arte pubblica fra i più stimolanti oggi a livello internazionale. E che, se interpretata in senso proprio, permette di ridisegnare aree urbane, curando le zone di degrado, aprendole alla fantasia con sculture, installazioni e graffiti che regalano un senso nuovo e profondo agli spazi collettivi, siano essi una piazza, una stazione, un parco o una strada. Come dimostrano gli interventi di un artista come Anish Kapoor, per fare un esempio alto. Più delicata e complessa è l’operazione di public art quando gli artisti sono chiamati ad intervenire in contesti antichi, stratificati, delicati, complessi. Come è il caso della Capitale. La mostra Par tibi, Roma, nihil, organizzata da Romaeuropa festival con Electa e da poco aperta tra le rovine del colle Palatino ci offre lo spunto per fare qualche riflessione in proposito. Curata da Raffaella Frascarelli, fino al 18 settembre, è un esempio affascinante di arte “contest specific”. Si tratta in realtà di una mostra collettiva ma pensata come fosse un’opera corale in cui 36 opere di altrettanti artisti – maestri dell’arte povera e talenti più giovani- si compongono come brani di un’unica sinfonia, capace di far risuonare insieme antico e moderno. Da segnalare, tra l’altro, che la mostra segna il ritorno a Roma di Janis Kounellis, che proprio nella capitale più di 50 anni fa iniziò la sua ricerca. Ma rilevante è anche la presenza di Daniel Buren, l’artista francese che con le sue installazioni di vetri colorati, qualche anno fa ha trasformato il Grand Palais a Parigi in un calidoscopico scrigno, in un universo della fantasia abitato dai visitatori. Qui Buren non ha scelto il suo vocabolario a vetri più celebre (con il quale ha anche ridisegnato l’esterno del Centre Pompidou di Malaga) ma ha optato per le bandiere, perché entrano in risonanza con la storia multietnica di Roma, per secoli abituata ad accogliere nella civitas persone provenienti da altre culture. Ed è invece tutto merito della curatrice l’aver saputo far dialogare questo contesto archeologico latino con opere come quella di Chen Zen, raffinato artista cinese, scomparso prematuramente nel 2000.
Carrara diventa una galleria diffusa
Il centro storico di Carrara, d’estate, si trasforma in un’affascinante galleria a cielo aperto. Quest’anno nelle piazze, nelle strade, s’incontrano opere di autori raffinati e dal lungo percorso come Remo Salvadori e, in spazi insoliti come l’aula magna dell’Accademia, realizzazioni di artiste sensibili come Maura Banfo che, dopo aver sperimentato con la fotografia e il video, da qualche tempo si dedica alla scultura in modo intenso e personale. Per l’edizione 2016 di Carrara Marble weeks, curata dallo scultore e docente Luciano Massari, ha creato un radioso nido argenteo che emerge dal buio della sala come in un sogno. Una scultura-installazione “romantica” che invita a riflettere sulle prime forme dell’abitare. Un’opera fragile, vibrante di luce e anti monumentale che dimostra come il linguaggio della scultura possa essere radicalmente rinnovato e le forme arricchite di risonanze profonde. Anche Salvadori lavora su forme essenziali, nel suo caso quasi classiche, eleganti, come la scultura in marmo site specific in piazza del Duomo (in foto). Il titolo Non si volta chi a stella è fisso rimanda al complesso background filosofico a cui lo scultore toscano ama rifarsi. Rimanda al tema dello spazio-tempo, invece, il cerchio che Salvadori ha posto ai piedi della statua del Gigante. Un’opera circolare fatta di fili di acciaio intrecciati, ma che sembra di morbida corda. È la magia di Remo Salvadori che, con materiali nobili o poveri crea forme poetiche, altamente evocative. All’apparenza minimali, ma da cui promana un “calore” umano, niente a che vedere con la fredda razionalità della Minimal Art di stampo americano. Le due opere che Salvadori ha disposto all’aperto rinviano poi ad una terza, intitolata Nel momento e dalla tessitura complessa, in rame e in piombo, un’opera a parete sul fondo di uno spazio affacciato su piazza Duomo. E che, al tramonto, si illumina di riflessi, come una raffinata vetrata orientale.
Bosch al Padro, per il quinto centenario
La forza del colore, un tripudio di giallo, rosa, verde brillante è ciò che colpisce del Trittico delle delizie prima di metterne a fuoco le complesse e bizzarre fantasmagorie. L’intensità e la trasparenza dell’azzurro che sfuma in un orizzonte infinito, ma anche il nero e il rosso intenso dell’incendio sullo sfondo. Lo smalto delle tinte dà leggerezza al quadro nonostante il tema religioso. Sembra quasi di cogliere il divertimento dell’artista nel dipingere scene visionarie da fiaba nera. Con animali che parlano, fragole giganti e amanti che se la svignano solcando il cielo in groppa a un enorme pesce. Forse anche per il pubblico scelto a cui era destinata, un’atmosfera di festa permea questa messa in scena della creazione, di una effimera felicità e dell’inferno. Nel palazzo dei conti Nassau a Bruxelles questo trittico del 1500- 1505 doveva stupire gli ospiti, far parlare di sé. Questa era l’intenzione del suo autore, all’epoca già affermato. Benché avesse trascorso la vita a ’s-Hertogenbosch, cittadina mercantile del Brabante, dove gli unici eventi erano feste sacre e il carnevale. Di lui si sa che era figlio d’arte e il suo vero nome: Jeronimus van Aeken, poco altro. Il che rende ancora più enigmatico questo artista del XVI secolo ancora medievale nel modo di creare allegorie senza prospettiva, originale fino all’estremo eppure ligio alla dottrina e sferzante verso l’avidità della nascente borghesia. Toccando questi e altri temi, nel V centenario della morte dell’artista olandese, il Prado invita a una lettura molto approfondita della sua opera con una retrospettiva (fino all’11 settembre) che raduna a Madrid 25 suoi dipinti: quasi tutti quelli superstiti, scampati all’iconoclastia luterana. Con questa monografica (presa d’assalto dagli spagnoli che lo considerano una gloria nazionale) la curatrice Pilar Silva ricostruisce l’intero percorso di Bosch. Al centro c’è il Trittico delle delizie. Ed è un’esperienza unica vederlo accanto alle Tentazioni di Sant’Antonio del museo di Lisbona, ad Ecce homo proveniente da Boston, al corrusco Giudizio finale di Bruges. Al trittico di Venezia e molto altro, compreso il Sant’Antonio del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, di recente attribuzione. Vista nel suo insieme, l’opera di Bosch appare variegata e al tempo stesso coerente, pur nella continua lotta fra quaresima e carnevale (per dirla con un suo titolo); nutrita di leggende popolari e letteratura dell’epoca, come l’opera satirica La nave dei folli di Brant a cui Bosch dedicò l’omonimo quadro del Louvre.
Chagall, un Forte di Bard pieno di saltimbanchi
Quando «vidi per la prima volta alcune opere di Chagall – ero al liceo – rimasi affascinato dal senso di gioia che ne promanava, dalla presenza della musica, dai violinisti sul tetto, dal contesto “esotico” del mondo ebraico orientale, venato di malinconia e tenerezza». Così ricorda Lorenzo Gobbi nel saggio L’albero coricato (Castelvecchi) dedicato a Marc Chagall, rievocando un’esperienza comune a molti. La sua “semplicità”, la forza del colore, le atmosfere oniriche e fiabesche catturano all’istante, nel rapporto diretto con le sue opere dal vivo (che non rendono altrettanto in riproduzione, per quanto tecnicamente perfetta). E l’emozione è fortissima in vetta, al Forte di Bard, castello arroccato e solitario in Val d’Aosta che ospita ben 265 opere del pittore bielorusso (poi naturalizzato francese). Sono dipinti, disegni, bozzetti, acquerelli, gouaches, ceramiche, litografie, che si irradiano intorno a La vie (1964), un olio su tela di quattro metri per tre, mai esposto prima in Italia.
Curata da Gabriele Accornero, la mostra, che resterà aperta fino al 13 novembre, è stata pensata come una sorta di biografia per immagini, a cominciare da una lunga teoria di autoritratti, come L’uomo con bouquet (Per Aimé) del 1958 dalla Collection Maeght di Parigi e poi la Russia fatata di antichi villaggi, personaggi buffi, poetici e stralunati della tradizione popolare yiddish che unisce comico e tragico, la natia Vitebsk, i saltimbanchi, gli acrobati del circo, paesaggi immaginari verde e blu cobalto. Per arrivare poi, con un deciso salto cromatico, alle tele che raccontano in un tripudio di rosso e di giallo la turbinante Parigi, la metropoli moderna dove Chagall si trasferì nel 1923, rimanendo un “apolide” che si riconosceva in molte e differenti culture. Stando dentro e fuori le avanguardie, apprezzandone le novità ma mantenendo sempre una propria poetica, un universo visivo fuori dal tempo, incentrato su temi universali che riguardano tutti gli esseri umani, la nascita, il gioco, la fantasia, l’amore, a cui è dedicata una intera sezione con Fidanzati su fondo blu (1930), Gli innamorati al chiaro di luna (1952) e altre opere. Un altro tema chiave è il viaggio, lo sradicamento, il continuo errare. Questo è anche il significato di “Schagallen” in russo nota nel catalogo della mostra Markus Müller, direttore del direttore del Museo Picasso di Münster, che ha prestato opere come Gli sposi nell’atelier.
Interessante, infine, anche la lettura che Müller offre dell’ultima parte della mostra dedicata alla Bibbia. Invitando lo spettatore a guardare questa serie di opere come creazioni ispirate alla Bibbia non come libro sacro, ma come testo poetico letterario. Fino al 13 novembre 2016.