«Scusi, della “Che Guevara” c’avete anche i borselli?». Quella di Checco Zalone in Sole a catinelle forse è la considerazione politica più sensata degli ultimi tempi. L’Italia chi è Che Guevara se l’è proprio scordato, se a tirarlo per la giacchetta sono politici di ogni sorta.
Di Battista fa il suo tour in bicicletta, si fa fotografare mentre legge a letto e dice di avere Guevara nel suo pantheon, ma è alla guida – non da solo, certo, ci mancherebbe – del Movimento 5 stelle. No, le due cose non possono coesistere. Il noeuropeismo sul filo della xenofobia del M5s si scontra con l’internazionalismo e il terzomondismo del Che, mi spiace.
Ancora: 5 febbraio 2016. Giuseppe Sala, candidato alle primarie del centrosinistra di Milano, alla vigilia del voto, caccia fuori una maglia rossa con l’effige del Che: «Ora la metto nel cassetto, con la lavanda. Ma spero di poterla tirare fuori quando, a giugno, sarò sindaco della città». Sala ha vinto, adesso è sindaco di Milano, se lo abbia fatto davvero non è dato saperlo. Quello che forse è certo è che Guevara non avrebbe gradito essere riposto in un cassetto in compagnia della lavanda.
Il fatto è, abbiate pazienza, che oltre a una motocicletta e a un discreto numero di aforismi (veri o falsi che siano, sulla rete non importa) Ernesto Guevara è pure portatore di un pensiero. Anzi, di una teoria politica. Si chiama guevarismo.
Sarà che è diventato una specie di rockstar, della quale non si conosce nemmeno una canzone. Sarà che la parte politica che dovrebbe stargli più vicina ha smesso di occuparsene tanto tempo fa. E non nel celebrarlo, s’intende. Perché se Guevara è stato – come è stato – un guerrigliero sì, ma anche un politico e un pensatore; allora “stare dalla sua parte” dovrebbe voler dire quantomeno riflettere su quel pensiero. Ma, a sinistra, discutere del Che, ricordarlo o anche solo citarlo è “anacronistico” se non “ridicolo”, è una roba da ragazzi… alla stregua di chi indossa la kefiah basco in testa e sigaro in bocca. Così, tanto per giocare, per scimmiottare quel fico di un guerrigliero.
Intanto la destra, quella estrema, come abbiamo visto, lo usa e lo abusa. Tipo Casa Pound, sì Casa Pound. Anno 2009, i fascisti del terzo millennio svolgono un’iniziativa dal titolo: “Aprendimos a quererte” (hanno imparato ad amarlo… loro) per rendere omaggio a Che Guevara (si legge nel loro invito): «CasaPound si appresta a celebrare la figura del Che e, con esso, la memoria della destra rivoluzionaria. In confronto aperto con la sinistra radicale».
Che in Italia il Che e il guevarismo tornino al loro posto – che non è certo CasaPound, e nemmeno una maglietta – non è e non deve essere una speranza. Ma una responsabilità della sinistra. Serve onestà, conoscenza, l’abbandono dell’idolo usa e getta. Il Che non è mai stato un pacifista, inutile indossare la sua maglia impugnando una bandiera della pace. Si può anche non essere d’accordo con Guevara, non è necessario modificarne i contenuti (purché siano di nostro gradimento, o utilità).
Perché in questo sì ha ragione Guevara: per un mondo nuovo è indispensabile un Uomo nuovo. Altrimenti non se ne esce. Ma in questo chissà perché non lo cita mai nessuno.