«Il viaggio è fatale per il pregiudizio, la bigotteria e la ristrettezza mentale» scriveva Mark Twain. E nella storia sono stati tanti i grandi viaggiatori, alcuni figure anche leggendarie, che hanno lasciato libri e testimonianze di grande fascino e apertura mentale. Pensiamo per esempio a Marco Polo e al suo immaginifico Milione oppure a un coltissimo viaggiatore arabo come Ibn Batuta. Grandi viaggiatori sono stati i mercanti, ma anche gli avventurieri e i pirati. Viaggiatori sono stati, soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti. Anche se erano una ristretta elite. Ha raccontato queste e tante altre tipologie di viaggiatori il docente di letteratura anglo-americano Attilio Brilli, fra i massimi esperti di letteratura di viaggio. A cui ha dedicato numerosi saggi. Fra i quali Viaggio in Oriente, Il grande racconto del del Grand Tour e più di recente Mercanti e avventurieri (Il Mulino), che sarà a centro della sua conferenza al festival Con-vivere a Carrara, l’8 settembre mentre il 4 settembre a Sarzana al Festival della mente parlerà del viaggio fra spazi reali e immaginari.
Professor Brilli i mercanti che si mettevano in viaggio nel medioevo e nei secoli successivi erano anche un po’ degli avventurieri?
Lo era un personaggio come il fiorentino Francesco Carletti (1573 – 1636), che fece un viaggio intorno al mondo stupefacente, viveva mercanteggiando, senza scrupoli. Iniziò portando i neri nel nuovo mondo. Durante il viaggio in momenti di bonaccia, quando mancavano i viveri e l’acqua scarseggiava, buttano gli schiavi fuori bordo – purtroppo quel che succede ancora oggi in viaggio fra la Libia e l’italia – . Carletti, raccontando quei momenti, scrive:”mi veniva male nel veder buttar via la roba mia”. Per lui quelle persone erano “roba” , mercanzia, niente altro. Questo è per dire della mentalità del tempo. Quando Francesco Carletti arrivò in America si domandava chi erano in realtà i conquistadores. Erano ribelli spagnoli, senza arte né parte, per un verso. Per un altro verso era gente che si dava all’avventura pur di scoprire qualcosa di nuovo, si imbarcavano per l’ignoto e diventano poi conquistadores in Spagna. Curiosamente dice la stessa cosa Filippo Sassetti (Firenze, 1540 – Goa, 1588) che invece viaggia in senso opposto, va verso Oriente e vive e commercia con le colonie portoghesi, a Goa: i portoghesi erano dei veri e propri avventurieri, gente che si dava alla ventura, che andava alla scoperta del nuovo mondo, nuovi modi di vivere e così via. Sia Carletti che Sassetti sono già degli avventurieri. Gli inglesi definicono questi personaggi merchant adventurier, mercanti avventurieri dove avventurieri non ha il senso negativo che gli diamo noi, indica colui che si dà all’avventura, che scopre nuove terre, nuovi canali di mercanzia, luoghi dove poter imbastire nuovi scambi e commerci con le spezie, con le pietre preziose e altro.
Per partire verso l’ignoto ci vuole una dimensione interna di fantasia. Fu importante per Colombo che andò alla ricerca di nuovi orizzonti, di cui non aveva esperienza, ma che “intuiva” possibili?
Sì, nel modo più assoluto. Colombo è l’esempio più affascinante in questo senso. Basta leggere una testimonianza del figlio Fernando; dice una cosa stupefacente: “mio padre aveva due libri nella biblioteca di bordo, uno dei due era Il Milione di Marco Polo”. Tutti i navigatori avevano una piccola biblioteca a bordo. Erano meno sprovveduti di quel che si pensa. Il secondo libro che Colombo portava con sé era un un testo John of Mandeville, i cui viaggi erano totalmente immaginari, non si mosse mai da Oxford, non uscì dalla biblioteca e lì stilò una sorta di regesto di tutti i libri dell’antichità, da Erodoto in poi, i grandi enciclopedisti medievali, Isidoro di Siviglia eccetera. Colombo aveva questo libro di viaggi immaginari o antichi, del mondo calssico. Se si fosse basato su di esso figuriamoci se sarebbe arrivato! Marco Polo va via terra in Oriente, Colombo va per mare verso Occidente, ma Colombo vi leggeva il grande impulso a confrontarsi con l’ignoto; cercava di sfondare il muro d’ombra di ciò che sconosciuto.
Lei ha scritto un libro sui viaggi in Oriente che erano connotati di forte esotismo nell’Ottocento. Poco si sa invece dei viaggiatori arabi. Fra questi però ci sono figure molto affascinanti come Ibn Battuta. A spingerlo ad esplorare il mondo era il desiderio di conoscenza?
Quello di Ibn Battuta è un caso molto interessante. Il suo viaggiare ha tre dimensioni che si completano; tipiche della mentalità araba. Viaggiò per quasi tutto il mondo conosciuto allora, diceva di voler andare nelle molte madrasse e scuole coraniche che sono sparse per il mondo. I suoi erano viaggi di studio, certo, ma anche lui mercantaggiava. Lo facevano anche per sopravvivere, per finanziarsi il viaggio. E poi si muoveva come uomo di cultura, divenne uomo di corte, molto ricercato, alle Maldive. Lì diventò un grande personaggio politico, portando un sapere che a loro era ignoto, per esempio nell’amministrare. Non a caso Ibn Battuta viene visto come il Marco Polo arabo. Anche per il mercante e viaggiatore veneziano la grande fortuna fu che divenne una sorta di confidente del Kublai Khan, un supervisore delle sue terre. Nel Milione dice che Kublai aveva grande stima di lui perché gli indicava i problemi reali, dove c’erano amministrazioni che non funzionavano. Tutti gli altri suoi collaboratori invece tendevano sempre a rassicurarlo a dirgli che andava tutto bene, anche se non era così. Ibn Battuta ( autore de I viaggi, Einaudi ndr) era un intellettuale, un mercante, ma soprattutto un uomo dotato di un desiderio di conoscenza molto grande.
Parlando di viaggi fatti per conoscere, l’Italia è stata per secoli meta del Grand tour , una moda che durata fino alle epoche napoleoniche?
Il Grand tour è stato molto importante. A volte lo si vede superficialmente, ma fu una spia di un modo nuovo di rapportarsi al mondo. Nasceva dall’empirismo di Francis Bacon. Il quale consigliava di non prendere niente per vero che tu non possa dimostrare e sperimentare nella realtà dei fatti. Il Grand tour diventò un modo per scoprire tutto ciò che di interessante c’era da scoprire nel mondo. Venire in Italia per vedere la grande tradizione pittorica, la scultura da Michelangelo a Canova per esempio. Ma si dimentica che molti viaggi erano di carattere scientifico, per esempio John Ray mette nell’indice del suo libro una specie di rassegna botanica. Linneo in fondo si basò sugli studi del Grand tour, su ciò che gli riportavano di volta in volta i viaggiatori. Nel Settecento finisce per sistematizzare le informazioni raccolte. I primi viaggiatori in Oriente, in Yemen che veniva chiamato Arabia felix, portarono a Linneo un albero che lui non conosceva, l’albero del balsamo della Mecca. In qualche modo il Grand tour insegnava a non ignorare niente poi l’interesse si restringe alla tradizione artistica, ma era partito con un approccio universalistico, tutto ti deve interessare dalle piante, alle forme politiche e così via. Insomma il viaggio è stata una grande matrice di conoscenza.
Oggi il viaggiare si è democratizzato, ma dall’altra parte assistiamo ai viaggi dei migranti e dei rifugiati, che sono costretti a spostarsi.
Il dramma dei migranti oggi è un tema importantissimo .Quello che posso dire riguardo al passato è che dalla tarda latinità in poi, si è parlato di migrazioni di popoli. Uno studente italiano oggi sui libri di storia trova capitoli dedicati al tramonto del mondo romano e alle invasioni barbariche. Se fosse uno studente tedesco il suo manuale tratterebbe quella stessa materia come migrazioni di popoli.
Dall’altra parte si assiste al turismo di massa, è diventato una forma di consumismo per il viaggiatore che viene da Paesi ricchi?
E’ un fenomeno ormai molto diffuso. Quello che manca è la chiave è sapere come fare un viaggio, il gusto della preparazione che permettere di capire più in profondità il luogo che visitiamo. I viaggiatori del Novecento mi hanno insegnato molto in questo senso. Tenevano presente chi li aveva preceduti. Non è una forma di nostalgia. Chi c’è stato prima di me mi dà le chiavi di lettura e mi permette di vedere le differenze. Nelle Città invisibili Calvino immagina che chi voglia andare a visitare una determinata città debba portarsi una mazzetto di cartoline per vedere come era trenta o cinquant’anni prima. Ecco, io direi, se non c’è questo doppio sguardo, meglio restare a casa.