«Scrivo proprio perché sono un chimico», diceva l’autore di Se questo è un uomo. Ma per lui il logos era inscindibile dal pathos.Così letteratura e scienza riuscirono a convivere in armonia

Stanno per finire gli anni 50, quando l’inglese Charles Percy Snow getta il sasso nello stagno e, con un libro destinato a fare storia, denuncia un fatto a suo dire molto grave: l’avvenuta separazione tra «le due culture», quella scientifica e quella umanistica. Più che un sasso, la tesi di Snow è un macigno: se molti scienziati naturali sono disponibili a utilizzare quelle che in Italia Leonardo Sinisgalli chiama “le lime del pensiero” e a confrontarsi con le scienze umane, sempre più umanisti rifiutano il confronto. È per questo che le due culture tendono a divergere. Anzi, si sono già separate. Molti intellettuali sono colpiti dalla provocazione, ma non tutti si lasciano sommergere dalle onde sollevate dal macigno del chimico e scrittore inglese. Alcuni reagiscono. In Italia interviene prontamente un altro chimico e scrittore: Primo Levi. Che scrive: «Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo». E poi aggiunge: questa separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, se c’è, è «una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile».
Primo Levi è uno dei più grandi scrittori italiani. È uno scrittore testimone del suo tempo. Con Se questo è un uomo, che ha iniziato a scrivere nel dicembre 1945 e pubblicato nel 1947, racconta dell’indicibile cui ha assistito: il più grande misfatto che, probabilmente, l’umanità abbia mai commesso. L’Olocausto. Levi racconta quello che ha vissuto in prima persona, all’interno del campo di Auschwitz dove è stato deportato in quanto ebreo. È uno dei pochi sopravvissuti, grazie alla chimica.
La chimica, per la verità, attraversa tutte le quattro fasi della sua vita da giovane e poi da adulto. Prima della guerra, da studente. Durante la guerra è un chimico che lavora nell’industria. Con la deportazione è un chimico in un luogo particolare: in un campo di sterminio. Divenuto scrittore, il chimico ritorna nelle sue opere. Tra queste Il sistema periodico che, pubblicato nel 1975, è eletto nell’ottobre 2006 “più bel libro di scienza mai scritto” dalla Royal Institution di Londra. Mentre lui, Primo Levi, viene definito il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, battendo l’etologo Konrad Lorenz che, con L’anello di Re Salomone, giunge secondo. Primo Levi rientra, dunque, in quel novero ristretto ma non ristrettissimo di scrittori che alimentano, per dirla con Italo Calvino, la «vocazione profonda della letteratura italiana», perché nelle sue opere – proprio come in quelle di Calvino, oltre che di Dante, di Galileo e di Leopardi – si consuma il ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza. Solo che mentre Calvino è uno scrittore “cosmico e lunare” (per usare una definizione che lo scrittore sanremese usa proprio a proposito di Dante, Galileo e Leopardi oltre che di Ariosto), Primo Levi è uno scrittore “chimico e molecolare”, attento più che al tutto armoniosamente ordinato dei Greci (il cosmo appunto), alle sue singole e cangianti parti materiali. D’altra parte è lui stesso a riconoscerlo: «Scrivo proprio perché sono un chimico, si può dire che il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo».
Già, ma cosa significa mettere «piede sui ponti che uniscono la cultura scientifica con quella letteraria» da chimico? In primo luogo, significa avere un rapporto speciale con la materia. Come lo stesso Levi scrive, ricordando l’iscrizione nel 1937 al corso di Chimica dell’Università di Torino: «la nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove ed errori, era consistita nel farsi signore della materia (…) mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele (…) vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere noi stessi, e che quindi il sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo» (Ferro, Il sistema periodico). La chimica, dunque, come visione del mondo. Come filosofia: «Pensavo di trovare nella chimica la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere». In realtà un mestiere Levi lo trova, appena subito dopo la laurea a Lanzo, in una cava di amianto. E poi l’anno dopo, a Milano, presso la Wander, un’industria svizzera di medicinali, dove lavora fino al 13 dicembre 1943, quando viene arrestato come partigiano e deportato nei lager tedeschi.
Primo Levi non è uno scienziato. Come ricorda Mimma Bresciani Califano è e si definisce un chimico-tecnologo. È in questa dimensione di chimico di laboratorio industriale che Levi ritrova, come scrive Gaspare Polizzi: «la paziente lentezza del metodo» e apprende «l’“arte di separare, pesare e distinguere”, essenziale per l’esercizio della scrittura. A questo esercizio si unisce il ‘peso’ semantico di verbi come filtrare, cristallizzare, distillare e di qualità dei corpi come nero, amaro, vischioso, tenace, greve, fetido, volatile, inerte, infiammabile, che dicono poco al lettore-scrittore comune».

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