Se c’è un Paese che ha fatto di tutto per far cadere il dittatore siriano Bashar al-Assad, questo è la Turchia. È il giugno 2012 quando Erdogan fa sapere alla Nato di voler entrare direttamente in guerra con Damasco. In quel periodo la rivolta siriana, iniziata un anno prima e già trasformatasi in guerra civile, vede i ribelli avanzare e avere la meglio in molte aree del Paese. La risposta del regime non si fa attendere e, sempre in quell’inizio estate, usa elicotteri d’assalto nei centri abitati, mentre nelle città i soldati governativi impiegano negli attacchi con gran frequenza le milizie shabiha, formazioni spesso appartenenti alla criminalità comune di giovani alawiti – minoranza religiosa a cui appartiene circa il 12% della popolazione siriana, compreso il clan degli Assad.
I massacri di civili sono all’ordine del giorno. Sono in molti in quei mesi a prefigurare una prossima caduta del regime e a sostenere apertamente il fronte dei ribelli. La più attiva è, da quasi subito, proprio la Turchia che fornisce armi al neonato Esercito libero siriano (Els) e offre riparo ai vertici militari dell’opposizione. Anche Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna cominciano a fornire equipaggiamenti e finanziamenti, mentre l’Unione europea inasprisce l’embargo sulla Siria.
I ricchi emirati del Golfo Persico, finanziano e inviano ugualmente armi ai ribelli, soprattutto ai gruppi integralisti di ispirazione salafita, come appunto al-Nusra. Un rapporto «confidenziale» del Dipartimento di Stato statunitense del 28 giugno 2012, pubblicato da Wikileaks e basato come spesso in questi casi su «fonti con l’accesso ai più alti livelli dei governi e delle istituzioni (…), compresi partiti politici, servizi di intelligence e di sicurezza locali», rivela l’attivismo del generale Necdet Oezel, Capo di Stato maggiore turco fino al pensionamento nel 2015. In quei giorni la tensione tra Ankara e Damasco è alle stelle. In sede Nato si susseguono le consultazioni sull’incidente avvenuto il 22 giugno: l’abbattimento da parte dell’antiaerea del regime siriano di un caccia F-4 Phantom dell’aviazione turca. Ankara considera l’accaduto un atto di guerra e sulla base dello statuto dell’Alleanza Atlantica, considerandosi Paese membro “aggredito”, chiede l’intervento Nato.
Pur condannando «le attività militari siriane contro la Turchia», si legge ancora nel cablogramma riservato, gli alleati «si oppongono a una risposta aggressiva», ribadendo che «il governo turco non si può permettere di attirarli in una guerra che potrebbe diffondersi rapidamente in tutta la regione». Il generale Oezel spinge però sull’acceleratore, assicurando a Erdogan che «l’esercito turco potrebbe sottomettere le forze siriane subendo danni minimi, in particolare grazie al morale estremamente basso di quello siriano». L’allora numero uno delle forze armate turche aggiorna ugualmente i suoi piani di guerra per la Siria: «400.000 riservisti, che possono essere attivati in tempi relativamente brevi, se necessario (…) anche se ben 100.000 soldati sono coinvolti in operazioni contro i curdi del Pkk nelle montagne orientali della Turchia e nel nord dell’Iraq, la maggior parte delle restanti 600mila truppe sono disponibili per le operazioni contro la Siria, tra cui le élite delle forze speciali e le unità di polizia paramilitare». Il dispaccio diplomatico cita poi una fonte con «accesso ai servizi di sicurezza libanesi», la quale sostiene che gli 007 di Assad «hanno intensificato le operazioni nella regione di Tripoli e in tutto il nord del Libano (…) con l’aiuto dei loro alleati di Hezbollah (…) nel tentativo di limitare il sostegno salafita all’Esercito libero siriano».
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