Webete. È il neologismo coniato da Enrico Mentana per rispondere a un utente che polemizzava su terremoto ed immigrati. Per chi se lo fosse perso il fatto che ha fatto schizzare la parola coniata dal giornalista in trending topic su twitter in sostanza è stato questo: una donna di Amatrice, testimone di quello che stava accadendo dopo il sisma, spiega, in un commento sulla pagina facebook del direttore di La7, quanto il parallelismo fra “i terremotati nelle tendopoli e gli immigrati serviti e riveriti negli alberghi” sia sciocco e poco attinente alla realtà, interviene allora un altro utente, che, con fare da internauta scafato, suppone che la donna sia un fake, ovvero un profilo facebook fasullo che, non solo non corrisponde a nessuna persona reale, ma addirittura tenta di presentare come vera una cosa palesemente falsa. La risposta di Mentana arriva secca e fulminea: «lei è un webete». Un webete, ma potremmo anche chiamarlo webidiota. Di neologismi in tema di hate speech, incitamento all'odio, in rete potremmo infatti coniarne a bizzeffe. L'anno scorso, a metterci in guardia dalla deriva di questa libertà di parola online - nella quale ci si scorda che avere il diritto di dire la propria non significa dover per forza esternare il proprio pensiero in ogni occasione - era stato Umberto Eco. «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» aveva detto il sociologo dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all'Università di Torino. E allora viene da pensare che sì, è vero, ci troviamo di fronte ad un'invasione, non di immigrati però, ma di webeti. Hanno ragione Mentana ed Eco. Di fronte a un fenomeno tanto diffuso viene spontaneo chiedersi quanto incida lo stesso web nella diffusione della stupidità. Una prima risposta ce l'ha data Michela Del Vicario del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT Alti Studi Lucca autrice insieme ad altri colleghi provenienti da università straniere di uno studio che spiega come soprattutto gli ambienti social diventassero delle echo chambers, ambienti dove le bufale o le opinioni politicamente scorrette tendono a rafforzarsi e a diventare virali. Secondo Del Vicario questo accade perché: «le persone per lo più tendono a selezionare e condividere i contenuti  sui social network in base ad una narrazione specifica che sentono affine alle proprie idee e ad ignorare il resto» . Da un lato ci sono le bufale fatte di scie chimiche, vaccini che causano autismo e catene di Sant'Antonio dall'altro il cosiddetto hate speech, quei discorsi che incitano all'odio generalmente conditi da abbondanti dosi di razzismo, intolleranza (dall'omofobia al sessismo) e stereotipi vari. Questo non significa che l'hate speech abbia una vita solo virtuale, anzi, proprio perché esiste (e persiste) nella realtà offline, l'hate speech ha conquistato una sua rappresentazione online che, complici alcuni elementi caratteristici del web (commentare qualsiasi cosa immediatamente senza riflettere, senza essere effettivamente presenti per assumersi la responsabilità di quanto viene detto e senza che siano richieste competenze, algoritmi che tendono a mostrarci solo cose che confermano le nostre opinioni), ha trovato terreno fertile in rete tanto da fare di flame e troll elementi caratterizzanti del web. Secondo Joel Stein della rivista Time, è in atto una trasformazione, negli ultimi anni è infatti cambiata la personalità della rete. Un tempo il web 2.0 e i social network quello venivano enfatizzati per il loro carattere democratico e di libera informazione dei nuovi media. Mai prima di allora uno strumento aveva permesso a chiunque fosse in possesso di una connessione di accedere a una tale mole di dati e conoscenza.
Con il passare degli anni sono venute alla luce sempre più anche le ombre del web, a partire dalla questione della privacy fagocitata dai grandi colossi ansiosi di collezionare dati su possibili consumatori, fino ad arrivare agli istinti della massa canalizzati nei social network, dal cyber bullismo all'hate speech. Una trasformazione che, a ben vedere, non ha solo una ragione tecnica derivata dalla tecnologia e dall'architettura del web, ma anche sociale e politica derivata da dinamiche democratiche. Dinamiche meno recenti di quanto si possa immaginare. Lo storico greco Polibio per esempio teorizzava già più di duemila anni fa che ogni forma di governo avesse un suo aspetto degenerativo e che la democrazia, il potere del demos, il popolo, rischiasse se non tutelata di trasformarsi in oclocrazia (dal greco ochlos, folla) nel dominio di una massa informe, violenta ed ignorante. Oggi, a due millenni di distanza sul web ci ritroviamo messi sotto scacco da troll e webeti, una versione tecnologica e iperconnessa dell'ochlos di Polibio. Forse allora ci troviamo di fronte a una questione vecchia come il mondo. In un articolo comparso circa un anno fa su La Stampa di Gianluca Nicoletti, proprio a proposito delle affermazioni fatte da Eco, «finalmente possiamo misurarci con il più realistico tasso d’imbecillità di cui da sempre è intrisa l’umanità. […] chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori». Combattere i webeti e debellare l'hate speech è una delle sfide del nostro tempo per non scivolare in un'oclocrazia. Un'impresa ardua, ma non impossibile. Per combattere troll e utenti razzisti è necessario far capire, online come offline, che l'intolleranza non è un valore condiviso. «Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno – scrive sempre Nicoletti - , ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza». E se l'attacco è ai valori che hanno costruito la democrazia (libertà, uguaglianza, fraternità) la risposta probabilmente per debellare la webidiozia è educare nuovamente alla democrazia, costruire luoghi di confronto e analisi che si trasformino in echo chambers virtuose, avamposti online del fact checking che disinneschino bufale e incitamenti all'odio. Nell'era digitale questo è uno dei compiti del buon giornalismo. Non serve limitarsi a descrivere la rete come un luogo dove a vincere è l'intolleranza, non paga buttarsi a capofitto su titoli strillati e acchiappa click presi dall'ansia della crisi editoriale (come molti giornalisti invece fanno). Ci si deve sporcare le mani e rispondere a tono a chi non rispetta i valori democratici o, ancor più semplicemente, umani. Ritornare ad essere anche online cani da guardia della democrazia. Corretti, intelligenti, onesti. E in questo senso quel webete diventato virale ha fatto molto.

Webete. È il neologismo coniato da Enrico Mentana per rispondere a un utente che polemizzava su terremoto ed immigrati. Per chi se lo fosse perso il fatto che ha fatto schizzare la parola coniata dal giornalista in trending topic su twitter in sostanza è stato questo: una donna di Amatrice, testimone di quello che stava accadendo dopo il sisma, spiega, in un commento sulla pagina facebook del direttore di La7, quanto il parallelismo fra “i terremotati nelle tendopoli e gli immigrati serviti e riveriti negli alberghi” sia sciocco e poco attinente alla realtà, interviene allora un altro utente, che, con fare da internauta scafato, suppone che la donna sia un fake, ovvero un profilo facebook fasullo che, non solo non corrisponde a nessuna persona reale, ma addirittura tenta di presentare come vera una cosa palesemente falsa. La risposta di Mentana arriva secca e fulminea: «lei è un webete».
Un webete, ma potremmo anche chiamarlo webidiota. Di neologismi in tema di hate speech, incitamento all’odio, in rete potremmo infatti coniarne a bizzeffe.
L’anno scorso, a metterci in guardia dalla deriva di questa libertà di parola online – nella quale ci si scorda che avere il diritto di dire la propria non significa dover per forza esternare il proprio pensiero in ogni occasione – era stato Umberto Eco. «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» aveva detto il sociologo dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino. E allora viene da pensare che sì, è vero, ci troviamo di fronte ad un’invasione, non di immigrati però, ma di webeti. Hanno ragione Mentana ed Eco.
Di fronte a un fenomeno tanto diffuso viene spontaneo chiedersi quanto incida lo stesso web nella diffusione della stupidità. Una prima risposta ce l’ha data Michela Del Vicario del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT Alti Studi Lucca autrice insieme ad altri colleghi provenienti da università straniere di uno studio che spiega come soprattutto gli ambienti social diventassero delle echo chambers, ambienti dove le bufale o le opinioni politicamente scorrette tendono a rafforzarsi e a diventare virali. Secondo Del Vicario questo accade perché: «le persone per lo più tendono a selezionare e condividere i contenuti  sui social network in base ad una narrazione specifica che sentono affine alle proprie idee e ad ignorare il resto» .
Da un lato ci sono le bufale fatte di scie chimiche, vaccini che causano autismo e catene di Sant’Antonio dall’altro il cosiddetto hate speech, quei discorsi che incitano all’odio generalmente conditi da abbondanti dosi di razzismo, intolleranza (dall’omofobia al sessismo) e stereotipi vari. Questo non significa che l’hate speech abbia una vita solo virtuale, anzi, proprio perché esiste (e persiste) nella realtà offline, l’hate speech ha conquistato una sua rappresentazione online che, complici alcuni elementi caratteristici del web (commentare qualsiasi cosa immediatamente senza riflettere, senza essere effettivamente presenti per assumersi la responsabilità di quanto viene detto e senza che siano richieste competenze, algoritmi che tendono a mostrarci solo cose che confermano le nostre opinioni), ha trovato terreno fertile in rete tanto da fare di flame e troll elementi caratterizzanti del web. Secondo Joel Stein della rivista Time, è in atto una trasformazione, negli ultimi anni è infatti cambiata la personalità della rete. Un tempo il web 2.0 e i social network quello venivano enfatizzati per il loro carattere democratico e di libera informazione dei nuovi media. Mai prima di allora uno strumento aveva permesso a chiunque fosse in possesso di una connessione di accedere a una tale mole di dati e conoscenza.

Con il passare degli anni sono venute alla luce sempre più anche le ombre del web, a partire dalla questione della privacy fagocitata dai grandi colossi ansiosi di collezionare dati su possibili consumatori, fino ad arrivare agli istinti della massa canalizzati nei social network, dal cyber bullismo all’hate speech. Una trasformazione che, a ben vedere, non ha solo una ragione tecnica derivata dalla tecnologia e dall’architettura del web, ma anche sociale e politica derivata da dinamiche democratiche. Dinamiche meno recenti di quanto si possa immaginare. Lo storico greco Polibio per esempio teorizzava già più di duemila anni fa che ogni forma di governo avesse un suo aspetto degenerativo e che la democrazia, il potere del demos, il popolo, rischiasse se non tutelata di trasformarsi in oclocrazia (dal greco ochlos, folla) nel dominio di una massa informe, violenta ed ignorante. Oggi, a due millenni di distanza sul web ci ritroviamo messi sotto scacco da troll e webeti, una versione tecnologica e iperconnessa dell’ochlos di Polibio. Forse allora ci troviamo di fronte a una questione vecchia come il mondo.
In un articolo comparso circa un anno fa su La Stampa di Gianluca Nicoletti, proprio a proposito delle affermazioni fatte da Eco, «finalmente possiamo misurarci con il più realistico tasso d’imbecillità di cui da sempre è intrisa l’umanità. […] chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori».
Combattere i webeti e debellare l’hate speech è una delle sfide del nostro tempo per non scivolare in un’oclocrazia. Un’impresa ardua, ma non impossibile. Per combattere troll e utenti razzisti è necessario far capire, online come offline, che l’intolleranza non è un valore condiviso. «Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno – scrive sempre Nicoletti – , ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza». E se l’attacco è ai valori che hanno costruito la democrazia (libertà, uguaglianza, fraternità) la risposta probabilmente per debellare la webidiozia è educare nuovamente alla democrazia, costruire luoghi di confronto e analisi che si trasformino in echo chambers virtuose, avamposti online del fact checking che disinneschino bufale e incitamenti all’odio. Nell’era digitale questo è uno dei compiti del buon giornalismo. Non serve limitarsi a descrivere la rete come un luogo dove a vincere è l’intolleranza, non paga buttarsi a capofitto su titoli strillati e acchiappa click presi dall’ansia della crisi editoriale (come molti giornalisti invece fanno). Ci si deve sporcare le mani e rispondere a tono a chi non rispetta i valori democratici o, ancor più semplicemente, umani. Ritornare ad essere anche online cani da guardia della democrazia. Corretti, intelligenti, onesti. E in questo senso quel webete diventato virale ha fatto molto.