Questo articolo è un parere contenuto nel numero di Left che sarà sabato in edicola. Lo pubblichiamo oggi, in anticipo, perché il suo autore, Marco Omizzolo, ha ricevuto minacce (le gomme dell’auto squarciate questa volta) per la battaglia che conduce. È la quarta volta che succede.
Sconfiggere il caporalato non basta per vincere lo sfruttamento lavorativo a cui ogni giorno migliaia di lavoratori e lavoratrici, italiani e migranti, sono sottoposti. Si deve invece mettere in discussione il modello di produzione agro-industriale e le sue logiche, insieme alla tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, il dominio della grande distribuzione organizzata, le dinamiche delle imprese di trasformazione e della logistica. Il Ddl 2217 contro il caporalato approvato questa estate al Senato può rappresentare un passo in avanti a patto che entri nel corpo sociale vivo del Paese e nelle pratiche e prassi reali, concrete, effettive di contrasto al fenomeno, da accompagnare con riforme del lavoro e del welfare che vadano in senso contrario rispetto a quelle sinora prodotte. La supposta ripresa dello sviluppo non può passare, come in Italia invece sta accadendo, per la cancellazione dei diritti dei lavoratori e tra questi, in particolare, di quelli più esposti allo sfruttamento. Il Jobs Act in tal senso ha prodotto un arretramento dei diritti dei lavoratori ed ha certificato un rapporto di potere squilibrato tra capitale e lavoro a vantaggio diretto del primo.
Le vertenze sindacali e sociali organizzate nelle campagne italiane dimostrano la mutazione in corso, quasi antropologica, del lavoratore, soprattutto migrante, da soggetto portatore di competenze e titolare di diritti in ingranaggio di un sistema di potere nelle mani dell’impresa criminale. Quando un lavoratore è obbligato a chiamare padrone il proprio datore di lavoro e i relativi contratti vengono facilmente superati da prassi ispirate dalla logica dello sfruttamento, permesse da una legislazione complessivamente inadeguata e da controlli di scarsa qualità, la conseguenza è lo scadimento del mondo del lavoro nella barbarie dello sfruttamento.
La grande distribuzione in questo sistema ha un peso rilevante e contribuisce, con le sue logiche perverse, a trasformare l’agricoltura italiana in un’agricoltura padronale.
Per questa ragione ogni forma di rivendicazione e ribellione nei riguardi di un sistema di produzione padronale e mafioso da parte dei lavoratori va sostenuto, incentivato, accompagnato. Ed è per questo che lo sciopero di circa 2.000 braccianti indiani in provincia di Latina, organizzato ad aprile scorso dalla Comunità indiana del Lazio, dalla Flai Cgil, Cgil e dalla coop. In Migrazione, ha rappresentato un evento di portata storica. Lo stesso vale per la recente lotta di circa 400 lavoratori migranti che a Foggia, dinnanzi alla Princes, una delle aziende più note per la trasformazione del pomodoro, al grido di “il vostro made in Italy è sporco del nostro sangue”, hanno chiesto diritti e una retribuzione dignitosa. C’è però da domandarsi in queste vertenze dove siano le regioni.
Nel Lazio, ad esempio, l’amministrazione guidata da Zingaretti risulta latitante, nonostante qualche accenno di impegno col sostegno a progetti di contrasto al caporalato di breve durata. Poi il silenzio assoluto, mentre da anni riposa nei suoi uffici la proposta di legge contro il caporalato. I lavoratori in lotta, migranti o italiani che siano, dimostrano che esiste una nuova questione sociale, politica e morale che va oltre gli interessi delle imprese e la pavidità della politica. Esiste un tema fondamentale che è quello del diritto, del lavoro e della libertà, che unisce donne e uomini, lavoratori e lavoratrici, e che non può essere più nascosto o trattato retoricamente. Combattere le agromafie, la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e il caporalato, significa difendere la democrazia di questo Paese, garantire diritti costituzionalmente previsti e sconfiggere interessi economici e politici criminali. La politica e l’impresa devono decidere, senza tentennamenti, da che parte stare.