Perché Lorenzin invece di inventarsi “villaggi della fertilità” o un Fertility game per i ragazzi, non avvia una collaborazione tra scuole e consultori per offrire una educazione sessuale seria?

Riconosciamo alla ministra Lorenzin e alla sua consulente per la campagna sulla fecondità il beneficio delle buone intenzioni. È positivo considerare la salute riproduttiva un tema rilevante all’interno delle politiche della salute, e cercare di fornire informazioni utili perché ciascuno possa decidere al meglio della propria fecondità, o, nel caso di problemi, possa conoscere le opzioni possibili. Ciò che non va bene è dare l’idea che la bassa fecondità italiana sia prioritariamente la conseguenza vuoi di una scarsa “cura” che donne e uomini hanno del proprio potenziale fecondo, vuoi di egoismo. Nel “piano nazionale per la fertilità”, di cui il “fertility day” dovrebbe essere l’evento simbolo, infatti, si auspica “un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione”. Ed è sperabile che questo “capovolgimento” non avvenga. Perché generare è operazione ben più complessa e di lungo periodo del procreare (e possono esserne capaci anche le persone non feconde). Perché il desiderio di generare è innanzitutto un fatto individuale, che può divenire anche un desiderio di coppia. E la società può sostenerlo, riconoscerlo, accompagnarlo, ma non può porre se stessa, il proprio bisogno di riprodursi, come fine delle scelte di fecondità.
Contrariamente a quanto affermato in uno degli slogan ministeriali, la fecondità non è un bene comune, tantomeno un bene da utilizzare per il bene comune. La fecondità e la salute riproduttiva sono beni individuali inalienabili. Bene comune (una risorsa preziosa da salvaguardare e su cui investire), possono essere i bambini e i giovani, comunque siano entrati nella nostra società: per procreazione da parte di autoctoni o di immigrati o come migranti essi stessi o per adozione, da un genitore solo o da una coppia, da una coppia di persone di sesso diverso o dello stesso sesso. Non la procreazione. Ma qui tocchiamo un’altra debolezza della infelice campagna: il suo essere fuori contesto, come se le decisioni di fecondità si prendessero in condizioni sociali neutre, che non pongono nessun vincolo. È vero che non tocca alla ministra Lorenzin occuparsi delle politiche di sostegno all’occupazione femminile e giovanile, alle famiglie o dei servizi per l’infanzia e della scuola. Ma un po’ di coordinamento non guasterebbe e invece di lamentarsi con le donne giovani che non fanno figli, dovrebbe lamentarsi con i suoi colleghi di governo per le politiche che rendono difficile alle donne (e anche agli uomini) giovani decidere di avere un figlio. Stia poi nel suo ambito, dove c’è molto da fare, senza pretese di dare lezioni di morale o di spiegare le “bellezze della maternità”, identificate con la sola fecondità e censurando la paternità.
Il Piano nazionale sulla fertilità contiene aspetti positivi che andrebbero valorizzati e tradotti in politiche concrete a tutela dei diritti sessuali e riproduttivi. Ad esempio, visto che la prevenzione è così importante, perché non fornire gratuitamente e precocemente controlli periodici a uomini e donne su aspetti che, se identificati in tempo, potrebbero incidere sulla fecondità? E se il desiderio di generare merita di essere sostenuto, perché non facilitare concretamente l’accesso alle tecniche di riproduzione assistita per chi ha problemi di fecondità? Ancora, invece di inventarsi “villaggi della fertilità” o un Fertility game per i ragazzi, che di moderno ed evoluto ha solo l’ossessione per l’inglese, sarebbe più utile che si avviasse una sistematica collaborazione tra scuole e consultori al fine di offrire ai bambini e ragazzi una educazione sessuale seria, perché imparino a conoscere il proprio corpo (non solo la capacità riproduttiva) e a comprendere la sessualità, per viverli con agio, serenità e rispetto.

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