Sconfiggere il caporalato non basta per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di migliaia di donne e uomini, migranti e italiani, impiegati come braccianti nei campi agricoli italiani, abbattere lo sfruttamento lavorativo e la schiavitù. Si deve affrontare e sconfiggere il caporalato e nel contempo andare oltre esso per contrastare definitivamente anche la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, truffe, evasione contributiva e fiscale, sofisticazione alimentare, agromafie nell’accezione più ampia e qualificata del termine.
Si tratta di cambiare un modello sociale che pare sempre più centrato sul dominio, sulle relazioni convenienti, sulla prepotenza e sulla convenienza economica, in cui risulta fondamentale il contributo di mafie di varia origine. Tutto ciò nell’interesse di tutti i lavoratori, delle imprese agricole sane, dell’ambiente e del Paese.
Ogni anno, studi, inchieste e rapporti denunciano le condizioni di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che spesso sfociano nella riduzione in schiavitù. Italiani e migranti obbligati a chiamare padrone il proprio datore di lavoro, dipendenti dalla sua volontà in modo esclusivo e dai suoi pochi euro di retribuzione al giorno, agevolati da norme profondamente sbagliate come la rediviva “Bossi-Fini”. Nelle campagne italiane e sempre più spesso anche in Europa, si perpetuano condizioni di lavoro, sociali ed economiche che trasformano uomini e donne liberi in schiavi moderni.
Il conflitto sociale e la sua democratica dialettica ha lasciato spazio al dominio del capitale sotto le cui vesti si nascondono nuovi padroni e i mafiosi di sempre. Sono decine di migliaia gli uomini e le donne, italiani e migranti, che lavorano anche quattordici ore al giorno, quasi tutto l’anno, in serra o nei campi aperti, sotto padrone, sotto caporale, obbligati ad abbassare la testa per una retribuzione di poche centinaia di euro al mese, sempre a rischio licenziamento, violenza, persecuzione. Alcuni braccianti, soprattutto indiani residenti in provincia di Latina, sono indotti ad assumere, come mostra il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” di In Migrazione, sostanze dopanti per reggere le fatiche alle quali sono obbligati nei campi agricoli.
Altri subiscono le conseguenze di spedizioni punitive organizzate da padroni italiani e caporali, anche stranieri, per indurli ad accettare le condizioni imposte senza ribellarsi. Atti e comportamenti tipicamente mafiosi che correttamente vengono ricondotti, come prevede la riforma del nuovo codice antimafia, nell’ambito della fattispecie specifica del 416bis del c.p. Alcuni lavoratori e lavoratrici perdono la vita per via di uno sfruttamento divenuto sistemico. Altri si suicidano perché considerano questa l’unica strada possibile per spezzare le catene di una nuova schiavitù. Morti che pesano sulla coscienza collettiva. Le continue denunce di alcuni ricercatori italiani e stranieri, di organizzazioni come Medici senza Frontiere, Amnesty, In Migrazione, Emergency, Medu, Arci e molte altre, insieme ai sindacati e in particolare alla Flai Cgil, consentono di avere una fotografia adeguata, professionale e drammatica del fenomeno.
Il Ddl contro il caporalato approvato questa estate al Senato può rappresentare un importante passo in avanti nel contrasto alle agromafie, al caporalato e allo sfruttamento lavorativo, a patto che entri nel corpo sociale vivo del Paese e nelle pratiche e prassi reali, concrete, effettive, degli investigatori e della magistratura. Si deve passare in sostanza dalla produzione normativa alla sua applicazione reale, insieme a riforme del lavoro che vadano in senso contrario rispetto a quelle sinora prodotte.
La cosiddetta ripresa non può passare per la cancellazione dei diritti dei lavoratori e tra questi, in particolare, dei più esposti allo sfruttamento e alla violenza organizzata. Il Jobs Act in tal senso ha prodotto un arretramento dei diritti dei lavoratori ed ha rafforzato un rapporto tra datore di lavoro e lavoratore a del primo, chiunque esso sia.
I contratti di lavoro vengono facilmente superati da pratiche e prassi dello sfruttamento permessi da una legislazione inadeguata e da controlli di scarsa qualità. Buste paga finte, contratti di lavoro incomprensibili soprattutto per i lavoratori stranieri, una burocrazia inadempiente che agevola di fatto il malaffare, una magistratura, soprattutto penale, drammaticamente lenta, finiscono per restituire un potere straordinario allo sfruttatore, datore di lavoro, caporale o trafficante che sia.
La Grande Distribuzione in questo sistema ha un peso rilevante e contribuisce, con le sue logiche perverse, privilegi e aspirazioni, a trasformare l’agricoltura italiana in un’agricoltura per padroni. Essa invece potrebbe davvero essere occasione di rilancio per il paese e contribuire al cambiamento auspicato.
Per questa ragione ogni forma di rivendicazione, contrasto, lotta e ribellione democratica nei riguardi di un sistema padronale e mafioso da parte dei lavoratori va sostenuto, incentivato, accompagnato.
Ed è per questa ragione che lo sciopero di circa 2.000 braccianti indiani in provincia di Latina organizzato dalla Comunità Indiana del Lazio, dalla Flai Cgil, Cgil e con il contributo della cooperativa In Migrazione, ha rappresentato un’evento di portata storica. Quei braccianti indiani hanno dimostrato che esiste una nuova questione sociale, politica e morale che va oltre gli interessi delle imprese e di una politica attenta al solo ritorno elettorale e agli equilibri di palazzo. Esiste un tema fortissimo che è quello del diritto, del lavoro e della libertà che unisce donne e uomini in Occidente come in Oriente, e che non può essere più nascosto o trattato in maniera superficiale. È per contrastare questa deriva democratica e sociale che è stata costituita e lanciata la campagna Coltiviamo Diritti, unione di associazioni e sindacati che vogliono accompagnare e sostenere le tante battaglie che nel territorio si fanno per sconfiggere caporalato e sfruttamento, liberando così donne e uomini dalle catene della schiavitù.
È utile anche ricordare il ruolo di alcuni hub dell’agricoltura italiana. Tra questi occupa un peso rilevante il caso del Mercato ortofrutticolo (Mof) del comune di Fondi, in provincia di Latina. Come afferma il giornalista Paolo Borrometi, oggetto da anni di minacce da parte delle mafie e per questo sotto scorta per le sue inchieste, il Mercato ortofrutticolo di Fondi è un “vero hub delle agromafie”, relativamente soprattutto ai trasporti gestiti dal clan dei Casalesi. L’operazione Sud Pontino e poi l’operazione Gea hanno accertato e disarticolato un’organizzazione criminale che, almeno dal 2000, imponeva il monopolio del trasporto su gomma di prodotti ortofrutticoli da e per i principali mercati italiani. Il sodalizio era gestito dalla famiglia camorristica degli Schiavone che aveva esteso il proprio dominio nei mercati campani di Aversa, Parete, Trentola Ducenta e Giugliano, fino ad arrivare a quelli siciliani di Palermo, Catania, Vittoria, Gela, Marsala e infine a quello di Milano. L’Italia unita dalle agromafie, da Nord a Sud. Autostrade mafiose che vanno abbattute. Proprio dall’operazione Sud Pontino si venne a conoscenza del patto tra il clan dei Casalesi e il gruppo dei corleonesi, nella gestione dei mercati ortofrutticoli in tutta Italia e per il trasporto di frutta e verdura. Una logistica mafiosa, che comprendeva anche il traffico internazionale di armi, che inquinava il mercato, violava i diritti dei lavoratori, determinava concorrenza sleale nei riguardi delle imprese oneste, agiva con metodi intimidatori, inquinava l’ambiente con una gestione disinibita e criminale delle sue attività.
Le condanne, oramai definitive, hanno riconosciuto l’esistenza del sodalizio criminale tra i casalesi e i corleonesi, rappresentati da Gaetano Riina, fratello del capomafia Totò. Nel patto, secondo il pentito Gianluca Costa, anche i fratelli Sfraga, referenti imprenditoriali delle famiglie Riina-Messina Denaro nel settore ingrosso dei prodotti ortofrutticoli e che garantivano per l’intera organizzazione siciliana. Sodalizi mafiosi che conquistano interi settori dell’economia, che impongono prezzi e costruiscono mercati criminali, che violano diritti e regole, che condizionano la politica ad ogni livello. Stiamo invece assistendo alla formazione di una nuova organizzazione mafiosa, una sorta di quinta mafia, una consorteria di mafie e di interessi sintesi di un network sociale criminale infarcito di interessi economici e politici e di accordi tra varie organizzazioni mafiose che agiscono in modo coordinato fagocitando, con una potenza criminale nuova, diritti, giustizia e legalità.
È indispensabile, infine, come afferma anche l’Asgi, tutelare le vittime del grave sfruttamento lavorativo, meritevoli di una diversa e più ampia tutela sotto molteplici profili, incluso il loro diritto a soggiornare sul territorio quando privi del permesso di soggiorno, così come si devono tutelare coloro che si ribellano ai caporali, mafiosi, sfruttatori e trafficanti e tutti quei testimoni che sostengono in giudizio, con coerenza e coraggio, le relative accuse esponendosi direttamente. La principale misura del contrasto alla tratta di esseri umani e alle agromafie è la protezione delle vittime e dei loro testimoni. Essere in grado di identificare e dunque proteggere una vittima e i suoi testimoni significa acquisire un elemento utile, se non determinante, per le indagini volte a reprimere il fenomeno criminale.
Lo Stato, e con esso tutte le sue articolazioni territoriali, comprese Regioni e Comuni, deve impegnarsi per richiamare alle proprie responsabilità quanti hanno ruoli, compiti e poteri precisi. Sindaci, prefetti, questori, ispettori del lavoro spesso sottovalutano, negano, considerano questo fenomeno marginale, interno alle sole comunità di migranti, poco rilevante sul piano penale. Anche su questo tema si ascolta da anni una sterile litania istituzionale che, come sosteneva Ennio Flaiano, finisce per riconoscere la “situazione come grave ma non seria”. Combattere le agromafie, il traffico internazionale di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo, la logistica mafiosa e il caporalato, dunque un modello di impresa padronale e violento, significa difendere la democrazia di questo Paese, garantire diritti costituzionalmente previsti e sconfiggere interessi economici e politici criminali. Le mafie, lo sfruttamento lavorativo, la riduzione in schiavitù, il caporalato sono alternativi alla democrazia. Ora si tratta di decidere, senza tentennamenti, da che parte stare.