Nel suo nuovo romanzo, Un pappagallo volò sull’Ijsse, Kader Abdolah racconta come è cambiata l’immigrazione e l’accoglienza in Olanda, che per lo scrittore iraniano resta un grande laboratorio di futuro
Memed Kamal dice all’avvocato dell’ufficio immigrazione olandese di essere un curdo che fa parte della resistenza a Saddam Hussein. Ma l’accento e il nome del gruppo a cui dice di appartenere tradiscono la sua origine iraniana. Comincia così la sua vita nel Paese dei tulipani che dopo l’assassinio del regista Theo van Gogh, nel 2004, sta cambiando volto. Nella storia di Memed, scappato dalla vivace metropoli iraniana e approdato nel piccolo borgo riformato di Zalk, risuona quella del suo autore, Kader Abdolah: studente di fisica che militava in organizzazioni clandestine di sinistra in lotta contro il regime teocratico e che sognava di diventare scrittore. Da piccolo aveva inventato un linguaggio segreto per comunicare con il padre sordomuto, come la bambina che compare in questo nuovo romanzo Un pappagallo volò sull’Ijsse (Iperborea). Nell’85 scappò dall’Iran per non morire nelle carceri dell’ayatollah, come era accaduto a molti suoi amici, fra i quali un medico e un architetto, di cui porta il nome firmandosi con lo pseudonimo Kader Abdolah. In Olanda si è trovato a dover rinascere in una nuova lingua, imparata da autodidatta. Oggi i suoi libri sono tradotti in 25 lingue ed è diventato il più grande scrittore contemporaneo in nederlandese. Un pappagallo volò sull’Ijsse racconta di un gruppo di immigrati musulmani costretti a fare i conti con la diffidenza dell’Europa dopo l’11 settembre. Ma che non mollano la speranza. Che si innamorano. Cercando con disarmante ostinazione di intrecciare rapporti veri. In un’Olanda che l’autore di Scrittura cuneiforme vede ancora come un laboratorio di nuove identità e di futuro.
Kader Abdolah, al protagonista di questo suo nuovo romanzo ha regalato qualcosa di sé?
Potrei dire che ho incontrato queste persone che racconto nel romanzo, le ho “viste” e cerco di raccontare l’emigrazione attraverso i loro occhi. Sì, è vero (dice ridendo), c’è qualcosa di me in Memed, mi è piaciuto dare qualcosa del mio carattere a questo personaggio.
Quando approdò in Olanda trovò un Paese molto diverso da come appare oggi?
Quando arrivai dall’Iran, dopo essere passato per la Turchia, trovai un Paese che guardava i primi immigrati – che eravamo noi – con gli occhi di un bambino. Non sapevano nulla dell’immigrazione, non sapevano nulla dell’Islam, non sapevano niente di Kader Abdolah e della cultura da cui proveniva. Ti guardavano con occhi curiosi, ti venivano incontro, cercando di conoscerti, provando ad essere amici. Ma dopo l’11 settembre e dopo che gli immigrati sono diventati milioni qualcosa è cambiato. Gli olandesi, -ma anche gli italiani, è la stessa cosa – hanno mutato atteggiamento. Gli immigrati sono cambiati e gli olandesi sono cambiati a loro volta. Niente era più come prima. Hanno cominciato a guardare gli stranieri con occhi diversi, sono diventati più diffidenti, hanno cominciato a chiudersi. Perfino io, Kader Abdolah, sono rimasto stupito vedendo così tante persone arrivare in città. Ma questo flusso di emigrazione così massiccio non si può fermare. Cambierà il nostro futuro. Vogliamo accettare la sfida? Tra cinquant’anni avremo una società culturalmente più ricca e integrata. Altrimenti sarà per tutti un incubo.
Dopo la strage al Bataclan in Francia e gli attentati in Belgio le destre hanno soffiato sul fuoco della paura alimentando sospetti verso i migranti. Come possiamo combattere questi pregiudizi?
Cinque o sei anni fa eravamo immigrati “normali”. Dopo l’11 settembre si è smesso di guardare ai migranti vedendo delle persone costrette a lasciare il proprio Paese, ma in loro si è cominciato a vedere dei musulmani. Intanto alcuni gruppi si sono molto radicalizzati. Io stesso che vengo da un Paese musulmano, che vivo da molti anni in Olanda e mi sento di appartenere ad entrambe le culture, sono rimasto scioccato, mi sono chiesto: che cosa sta accadendo? Che c’è in questa religione? Chi sono queste persone così violente? Come possiamo affrontare questa situazione? Ho moltissimi amici che vengono da Paesi musulmani e come me si chiedono da dove venga l’estrema violenza di questi fanatici. Non la conoscevamo.
Nel romanzo Catherina racconta a Memed un episodio di iconoclastia protestante accaduto secoli fa. La violenza dei cristiani in fondo non è stata molto diversa da quella dei wahabiti?
È proprio così! Io vivo in Olanda dove c’è stata l’iconoclastia protestante, ma potremmo parlare anche di quella cristiana delle origini. Vicino a casa mia c’è una grande Chiesa, dall’esterno architettonicamente molto bella, ma se vai dentro non c’è niente, quattro secoli fa i protestanti hanno distrutto ogni opera d’arte, ogni quadro in cui erano raffigurati la Madonna o Gesù. Ma così hanno distrutto ogni bellezza. L’iconoclastia religiosa è estremamente violenta, accade lo stesso nell’Islam fondamentalista, è come se questa violenza religiosa dovesse distruggere il gusto e il senso del vivere insieme, la bellezza, l’arte. I miliziani dell’Isis operano come i cristiani che distruggevano l’arte pagana.
C’è una radice di violenza in ogni monoteismo basato su un Dio assoluto e trascendente?
Io penso che ci sia un fondo di violenza in ogni religione. Questo è accaduto anche in Iran con la taeocrazia degli ayatollah, ma la grande tradizione letteraria e poetica persiana, i grandi maestri del passato hanno sempre cercato di opporsi alla violenza religiosa trasformandone gli aspetti negativi. Cercavano la bellezza attraverso la poesia. È la specificità della letteratura far nascere il bello anche dal dolore e dalle macerie.
Tornando là dove eravamo partiti: Meded che si spaccia per curdo mi ha fatto pensare a quando lei giovanissimo andò nel Kurdistan per scrivere un libro reportage, che poi nessuno voleva pubblicare perché era troppo pericoloso…
Andai nel Kurdistan iraniano per scrivere un libro a metà strada fra il giornalismo e la letteratura. Gli ayatollah perseguitavano i curdi, era in atto uno scontro feroce in quella zona del Paese e ho scritto un romanzo per raccontare più in profondità la realtà che avevo visto, per mostrare il dolore, la lotta, la resistenza di quelle persone, l’incanto della natura, dei fiumi, ma soprattutto per far sapere a tutto il resto della nazione cosa stava accadendo. Riuscire a farlo fu una vera sfida perché all’epoca le notizie su quelle aree erano censurate, come succede oggi in Turchia, dove i curdi sono oppressi dal governo di Erdogan. Il popolo curdo ha una lunga storia, una straordinaria lingua e letteratura, ma per ragioni politiche è stato frammentato e diviso fra curdi iraniani, curdi che vivono in Turchia, in Siria, in Russia. Ma io penso che sia un diritto umano inalienabile poter parlare la propria lingua, coltivare la propria letteratura, avere i propri rappresentanti politici. È giunta l’ora che i diritti curdi siano pienamente riconosciuti.
I curdi non hanno scelto la via delle armi, in qualche modo vi sono stati costretti?
I curdi sono belle persone, gentili, non vogliono usare la violenza, ma i regimi iraniani, turchi siriani li hanno spinti a imbracciare le armi per difendersi. Nel libro ho cercato di raccontare soprattutto le donne, appassionate, forti, bellissime.