Invece di commuoversi e sdegnarsi a ogni morto di fatica nei campi, la politica potrebbe contribuire dare visibilità al dramma del caporalato. Ancora sulla nostra petizione a Mattarella

La schiavitù. La schiavitù è una di quelle parole che eravamo convinti di avere riposto in soffitta, di quelle andate fuori tempo e buone ormai solo per farci qualche pastetta di memoria. Un politico che parla di schiavi è una fotografia che riusciamo a immaginare solo in bianco e nero oppure con i colori dei Paesi troppo povero e troppo lontani per suscitare empatia. Chissà quale meccanismo sociale scatta per stabilire che ormai non è più tempo di quella parola lì, chissà dove si è accesa la prima spinta che ha decretato che la schiavitù si fosse estinta, finita. Via.

“Allarme schiavi”: c’è bisogno di schiaffi per rianimare i sensi sopiti. Il dolore passa, dura il tempo del pianto, poi la polemica, gli omaggi, il funerale e le promesse. Quando l’anno scorso Paola Clemente è morta seccata sotto al sole per raccogliere l’uva a due euro all’ora nessuno s’è fatto mancare un filo di cordoglio, poi un sorso di condanna e via con la litania delle promesse. «Il caporalato è come la mafia» aveva dichiarato il ministro all’agricoltura Maurizio Martina e furono in molti a pensare che l’Italia volesse prendersi per davvero l’onere di lenire il sole sopra gli schiavi.

Forse il ministro sa che, come la mafia, il caporalato non è il fenomeno rustico e peloso come si vorrebbe fare raccontare ma si infila nei gangli più alti della quotidianità, della società gaudente e della società potente; come la mafia il caporalato sa di sangue e merda ma sa diventare commestibile, rispettabile o addirittura eccellente; forse il ministro sa che, come la mafia, noi non possiamo occuparci del caporalato ma il caporalato alla fine si occupa di noi, occupa i banconi del nostro supermercato, occupa le nostre tavole e gestisce i nostri gusti e sancisce le nostre opportunità; come la mafia il caporalato investe sulla disperazione ma blandisce il potere, corrompe i controlli e, pervasivo e sistematico, sorregge intere economie; forse il ministro Martina sa che anche per il caporalato, come per la mafia, servono leggi speciali, professionisti preparati, testimoni da proteggere e intanto diffondere, controlli serrati e un serio lavoro culturale e sociale. Come la mafia impone la tassa illegale del pizzo così il caporalato oggi pretende un’usura nascosta solo che qui, tra la raccolta nei campi da nord a sud, l’usura è fisica: erode le mani, asciuga i polmoni, infeltrisce i muscoli e intanto si mangia i diritti.

Allora recuperiamo le parole nascoste nei cassonetti: mafia sì ma anche schiavitù, emergenza umanitaria. Il genocidio di una categoria professionale che si ripete stagionale come se fosse ormai naturale. Se la politica è anche alimentazione civile allora decidiamo che quest’anno per questo raccolto non ci concediamo il diritto di contare i morti ma andiamo ad ascoltare e osservare i vivi. Lo faccia il Presidente Mattarella, con tutto l’autorevole carico che rappresenta in ogni suo sguardo sul Paese, lo facciano gli integralisti del rispetto della legge: si mischino nei campi, ascoltino i molti che combattono al fronte e guardino diritti negli occhi gli speculatori. Abbiamo a disposizione la mappa dei delitti proprio mentre si consumano. Che altro serve?

Questo è il viaggio da organizzare per la politica italiana.