Nicola Fratoianni risponde a Giuliano Pisapia. Perché lo scontro non è affatto tra tifoserie, come si vorrebbe far credere. Ricordando il documento con cui la Jp Morgan indicava nelle Costituzioni del sud Europa nate dalla liberazione dal fascismo uno degli ostacoli alle politiche di austerity, lo scontro è semmai tra due idee di democrazia

Giuliano Pisapia in un’intervista a Repubblica ha spiegato le ragioni per cui non se la sente di iscriversi al “fronte del NO” in vista del prossimo referendum sulla riforma costituzionale. Al netto degli elementi di merito rispetto al testo della riforma, che peraltro nel discorso di Giuliano appaiono assai marginali, nel suo ragionamento richiama la sinistra contraria alla riforma alla necessità di non esasperare gli animi in nome di una superiore necessità: l’unità del centrosinistra.

Prima di affrontare questo punto, che pure mi pare decisivo per discutere la tesi di fondo che Pisapia da tempo rilancia, voglio però soffermarmi sul merito della questione. Scompaiono nelle parole di Pisapia la quasi totalità dei punti maggiormente critici della Riforma. Non c’è traccia di una valutazione sull’impianto neo centralista della riforma che sottrae potere a regioni ed enti locali, nulla sul ruolo e sulla funzione del nuovo Senato né tantomeno sulla sua composizione non elettiva. La discussione sul carattere autoritario di una riforma che insieme alla legge elettorale ridisegna completamente la mappa dei poteri dello stato senza alcun equilibrio viene derubricata ad eccesso di propaganda. Ma l’assenza più sorprendente è quella di un ragionamento sul modello a cui guarda l’impianto della riforma e, forse più in generale, delle riforme di questo governo.

A me pare che con lo sviluppo e l’acuirsi della crisi sia andata affermandosi un’idea secondo la quale per governare al tempo della crisi serva una democrazia senza popolo, una democrazia a bassa intensità di partecipazione e possibilmente a zero intensità di conflitto. Del resto l’ormai datato ma attualissimo documento con cui, nel maggio del 2013, JP Morgan indicava nelle Costituzioni del sud Europa nate dalla liberazione dal fascismo uno degli ostacoli alla governance della crisi, ci dice più di qualcosa sugli interessi che si muovono attorno al tema delle cosiddette riforme di sistema. Così come ci dice molto il dibattito sulla governabilità e sul valore della stabilità. Termini a cui viene assegnata un’aurea salvifica in nome però di una sostanziale neutralità.

In questo senso e seppur con ragioni che, ne sono certo, sono lontanissime da quelle di chi come Marchionne o la Signora Merkel hanno in queste settimane esibito il loro appoggio alla Riforma proprio in nome della stabilità, il ragionamento di Giuliano non coglie l’essenziale. Si muove sul terreno, peraltro molto frequentato, che esclude la possibilità di una alternativa di fondo al quadro che abbiamo davanti. E dunque, di fronte all’assenza di una vera alternativa propone di concentrare le forze sulla mitigazione e sull’aggiustamento, punto per punto, delle politiche che hanno caratterizzato la stagione delle grandi o piccole coalizioni. Questo è il punto che a me pare centrale anche nella discussione sulla riforma della Costituzione. Mi pare cioè evidente che un intervento così massiccio sulla seconda parte della Carta serve a rendere più agevole la costruzione di politiche che mettano in discussione l’impianto della prima parte formalmente non toccata dal testo Renzi-Boschi.

Per queste ragioni la sfida referendaria è tutt’altro che uno scontro fratricida tra Guelfi e Ghibellini. È la sfida tra due diverse idee di democrazia e per questo è anche il terreno su cui una sinistra, che voglia riproporre le ragioni del conflitto tra alto e basso dalla società non può permettersi ambiguità.