L'artista cinese apre la città rinascimentale al contemporaneo, facendo dialogare antico e attualità. I conservatori insorgono.

«L’arte è sempre politica», dice Ai Weiwei. E un messaggio esplicitamente politico, che riguarda l’oggi e il dramma dei migranti è quello che l’artista cinese lancia installando gommoni arancioni, come il colore delle giubbe di salvataggio, intorno alle finestre a bifora di Palazzo Strozzi a Firenze, dove dal 23 settembre al 22 gennaio 2017 si può vedere la sua prima retrospettiva italiana, che racconta il suo intero percorso, dalle prime, ironiche opere realizzate quando andò negli Stati Uniti per studiare arte e conoscere le novità della scena internazionale, alle opere via via sempre più ispirate a temi urgenti e scottanti, come  la violazione dei diritti umani nelle carceri cinesi (che Ai Weiwei  ha sperimentato sulla propria pelle quando, senza processo, è stato incarcerato e messo in isolamento per reati fiscali mai dimostrati).

La mostra di Firenze evoca quei drammatici giorni con una inquietante ala metallica, mentre il piano nobile di Palazzo Strozzi è abitato dall’enorme serpente fatto con 360 zaini, quelli dei bambini che persero la vita nelle scuole crollate durante il terremoto nel Sichuan del 2008. Proprio la denuncia che Ai Weiwei fece pubblicamente, mostrando che le scuole erano costruite in modo inadeguato e non erano messe in sicurezza, segnò l’inizio del suo pedinamento da parte delle forze dell’ordine, culminato quando Ai Weiwei, fu fermato e picchiato quasi a morte. «In Cina, il rifiuto governativo di informare è una lunga storia, quindi per i cinesi è difficile sapere la verità, ora e sempre. Per questo è vitale resuscitare la verità»,  si legge in Weiweismi,  il libro Einaudi curato da Larry Warsh che raccoglie sue testimonianze.

A Firenze ci sono poi le poetiche installazioni con sedie di legno e ruote che evocano la Cina rurale, ancora poverissima, nonostante il super capitalismo (di Stato) che impera in metropoli come Shanghai. E ancora, fra le installazioni che hanno il coraggio di toccare temi scomodi ecco Objects, che evoca con inquietanti riproduzioni di pezzi anatomici il mercato di organi in Cina. A Firenze, insomma, ci sono tutte le realizzazioni più significative di Ai Weiwei dagli anni Ottanta a oggi: dai primi, laconici, assemblaggi di utensili ai recenti progetti politici sulle migrazioni; lavori che spesso rileggono in modo originale la tradizione cinese, anche attraverso l’uso di legni pregiati, della giada e della porcellana. Ma al contempo Ai Weiwei guarda al futuro, anche  esplorando le potenzialità della rete, fin dal 2005 facendone uno dei suoi mezzi di comunicazione privilegiati.

Nell’intervista al direttore artistico di Palazzo Strozzi Arturo Galansino pubblicata sul settimanale Left ad agosto, abbiamo ripercorso la genesi di questa importante mostra toscana, a cui ha collaborato Galleria Continua e che nasce dal lavoro di Galansino all Royal Academy di Londra, ma anche da ripetuti incontri con l’artista in Cina, dal momento che fino al 2015 non aveva ancora la possibilità di viaggiare, poiché le autorità cinesi gli avevano sequestrato il passaporto. In quel servizio, il docente di storia dell’arte alla Facoltà di studi orientali de La Sapaienza Filippo Salviati ci aiutava a contestualizzare l’opera di Ai Weiwei, collegando la sua ricerca alla generazione che ebbe il coraggio di ribellarsi al regime cinese, che poi intervenne con la repressione di piazza Tienammen. Poi sarebbe venuta la generazione dei pittori, iper pop e iperrealisti, che hanno invaso il mercato internazionale con prodotti sgargianti, molto commerciali e senza contenuto.

Lo ricordiamo qui perché negli attacchi che questa monografica di Ai Weiwei ha ricevuto non solo da giornali di destra (ed era prevedibile, visti i temi che Ai Weiwei tratta, a cominciare dall’emigrazione) ma anche da critici non certo conservatori come Francesco Bonami, non abbiamo visto traccia di approfondimento del percorso, del senso e del contesto in cui il lavoro di Ai Weiwei nasce e si è sviluppato. Attacchi che ci sono sembrati francamente gratuiti da parte del critico fiorentino che ha avuto successo a New York,  in particolare nell’articolo I gommoni sgonfi del furbo Ai Weiweipubblicato su La Stampa, in cui sostiene che «l’arte vera è un’altra cosa» dal parlare di diritti umani. Sentir dire proprio da Bonami che le opere di Ai Weiwei non sarebbero arte ma solo delle trovate efficaci, se non altro stupisce, vista la lunga collaborazione di Bonami con Maurizio Cattelan.

Bonami addita Ai Weiwei come «un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto», tanto da passare quasi tre mesi in carcere, «ufficialmente per evasione fiscale solo per poter avere successo internazionale come artista». Certamente Ai Weiwei è un artista che si espone al rischio, ma senza contare che era già molto famoso all’epoca dell’internamento, sembra poco plausibile che una persona che ha rischiato di morire di botte e che poi è stato operato alla testa per i danni subiti lo abbia fatto per avere qualche titolo di giornale.  Sull’opera di Ai Weiwei che incontra l’attualità con un’urgenza politica  si potrà forse dire che non sempre riesce a trovare un segno e una traduzione in immagini originali. Il suo percorso è certamente punteggiato di altri e bassi creativi – come del resto l’opera della maggior parte degli artisti che non si rinchiudono in una formula ma sono sempre alla ricerca – ma perché degradare la critica d’arte ad un attacco personale? E perché se si vuol considerare la sua biografia non allargare lo sguardo a tutto il percorso di Ai Weiwei fin dalla sua formazione segnata dagli anni in cui suo padre, poeta noto in Cina, fu costretto al confino, potendo  tornare nella capitale solo nel ’76?

La lotta di Ai Weiwei per i diritti umani  in Cina comincia quando era un ragazzino e arriva con coerenza fino ad oggi. «Mio padre non ha mai perso la propria luce. Puliva i gabinetti senza sentirsi umiliato perché in lui respiravano arte e cultura. Mi raccontava la storia romana e mi mostrava riproduzioni della pittura rinascimentale», dice l’artista a Leonetta Bentivoglio che lo intervista su Repubblica del 20 settembre: «Con la rivoluzione culturale quelle stampe meravigliose che mi avevano fatto sognare furono strappate e bruciate. Lui fu picchiato e massacrato, ma restò sempre calmo e gentile. Era colmo di un’energia artistica con la quale seppe proteggermi in giovane età. Mio padre è stato la vittoria dell’umanità di fronte alla barbarie».

Nella appassionata e litigiosa Firenze, questa mostra – che ha il merito di aprire la città rinascimentale al contemporaneo – ha scatenato un dibattito accesissimo, con decine di commenti anche sulla pagina del sindaco Dario Nardella. Commenti dai quali, dispiace dirlo, emerge la parte più conservatrice della città che grida allo scandalo perché la facciata di Palazzo Strozzi sarebbe stata deturpata dai canotti di Ai Weiwei. Le scialuppe dei migranti non dovevano arrivare a turbare il sogno del Rinascimento? Speriamo di sbagliarci, ma anche il duro editoriale in cui il direttore del Corriere fiorentino  si è scagliato contro lo storico dell’arte Tomaso Montanari (ex collaboratore cacciato dalla sua testata), sembra iscriversi in logiche locali, molto asfittiche. Più che riportarne il triste dettaglio, vorremmo piuttosto invitarvi a a leggere l’intervento dello storico dell’arte fiorentino. S’intitola Quei gommoni che ci invitano a guardare dentro di noi: personalmente lo condivido dall’inizio alla fine apprezzando anche il fatto che venga da un esperto dell’arte del ‘600 , ma anche profondo conoscitore del Rinascimento fiorentino.